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Djeca
La Bosnia oggi. Il conflitto è alle spalle, ma la "transizione" verso un domani migliore non si è ancora completata. Forse non è mai iniziata. E quello che resta è un infinito "stato delle cose", un presente dove non esiste neanche più lo spazio per l'utopia di un futuro diverso. Rahima (Marija Pikić) ha 23 anni, lavora come tuttofare nella cucina di un locale gestito da un boss del quartierino. E fa da madre al fratello minore, Nedim (Ismir Gagula), quattordicenne invischiato in giri loschi. Sono i "figli di Sarajevo", orfani di una guerra che ha lasciato solamente macerie. E alla quale non è seguita alcuna "ricostruzione".
Djeca di Aida Begić (al Certain Regard di Cannes nel 2012, quattro anni dopo l'acclamata opera prima, Snow, che vinse il Grand Prix della Semaine de la critique) è il "pedinamento" asfissiante di questo stallo: la regista (classe '76) non molla la presa su Rahima, seguita (quasi) sempre con pianisequenza durante il lavoro, i ritorni notturni verso casa. E utilizzata a sua volta per "pedinare" Nedim, reduce da un litigio a scuola con il figlio di un ministro e in bilico verso un futuro criminale. Ma Rahim non lo può permettere.
E' un film sullo strazio di un presente che non può lasciare da parte la memoria, Djeca, che sfrutta frammenti di immagini di repertorio per sottolineare i ricordi confusi dell'allora giovanissima protagonista (nel '92 aveva sette anni) e che lavora sul sonoro per marcare la sensazione di assedio che ancora accompagna la quotidianità della ragazza: il passaggio giornaliero sotto ad un cavalcavia che amplifica il rombo dei motori, petardi in lontananza lanciati da qualche bullo. E il rumore dei fuochi d'artificio la notte di Capodanno, in quell'abbraccio con Nedim che per un attimo si trasforma in "riparo". E che invece anticipa il cammino verso un altro, sperato futuro. Chiusura sbrigativa e forzata che lascia in sospeso almento due/tre situazioni aperte dal film, ma che non vanifica in maniera irrimediabile l'effetto del lavoro della Begić.