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Bubble
Ohio, white trash americano: collocazione geografica e antropologica dei protagonisti del quindicesimo film di Steven Soderbergh, Bubble. La quarantenne Martha e il giovane Kyle (interpretati da attori non professionisti) lavorano in una fabbrica di bambole da molti anni: normale diventare amici in quella solitudine globale. Il loro rapporto traballa quando viene assunta una nuova operaia, la ragazza-madre Rose: il reciproco interesse tra i due giovani apre le porte alla tragedia. Servono pochi minuti ('73) al regista per affondare la camera nel degrado sociale e morale della profonda periferia americana, ma sono più che sufficienti. Con una volontà di realismo che rende livide le immagini digitali, Soderbergh inquadra il junk food consumato tristemente dagli operai e contrappunta l'assemblaggio dei bambolotti con il dissezionamento del tessuto umano. Esistenze drammaticamente subordinarie che cadono a pezzi, dopo che il sogno americano è già in frantumi da decenni. Spazio dunque alla violenza, una violenza mediocre e acefala, gretta e disutile. Ma stabilire chi è colpevole e chi no è fatica sprecata: il noir - dice Soderbergh - è sepolto da un pezzo, il colore di moda in Ohio è un grigio indistinto dato dalla giustapposizione di volti sconfitti dalla vita. Mostrati senza remore né accanimento terapeutico: mostrati e basta.