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Accade rare volte che un film sia meglio del libro da cui è tratto e questa è una di quelle. Complimenti a Nick Hornby, capace di riscrivere il romanzo “rosa” di Colm Tóibín, Brooklyn, per farne un mélo vintage nella forma e modernissimo nella sostanza. Perfettamente completato in questo dalla sensibilità in regia di John Crowley. Brooklyn conserva dell’originale letterario la trasparenza linguistica, il dono della semplicità, ma la mette al servizio di un approccio più smaliziato. E politico. Bisogna andare oltre le apparenze, dunque.
C’è certamente la storia di una giovane donna irlandese, Ellis, che va a tentar fortuna in America nei primi anni ’50, il suo cuore diviso tra due paesi e, lo anticipiamo, due uomini. L’impianto tipico del mélo insomma. Ma se questo è il testo portante sono le intercapedini e i tramezzi che fanno la differenza.
Le storie nella storia. L’abbandono tormentoso dalla propria terra, il taglio sanguinoso con le proprie radici. Il giocarsi tutto, rimettendo in questione ciò che siamo e quello in cui crediamo. Emanciparsi, autodeterminarsi, diventare donna. L’aiuto decisivo dello “straniero”, la volontà di affidarsi. Il mescolamento etnico, l’abbraccio del vicino, la terra nuova in cui piantare le fondamenta di un altro futuro. Come si fa a considerare tutto questo un semplice romanzo rosa? E dove lo si trova oggi un film capace di parlare la lingua dei legami più sacri, dei sentimenti più autentici e profondi, di fedeltà alle promesse senza apparire pretestuoso, posticcio, sorpassato?
Brooklyn, fortuna nostra, procede senza scossoni, sotto la spinta invisibile di un delicato vibrato interiore in cui si addensa il nocciolo di emozioni e dilemmi muti e dilanianti. Evita tutte le trappole e i déjà vu dei drammoni sull’immigrazione per riconsegnare allo spettatore l’ultimo innocente sussulto di un’epoca e di un mondo perduto.
Quel 1952, come ci ricorda in una scena la locandina di Un uomo tranquillo di John Ford, che si era messo la guerra alle spalle e un avvenire pieno di promesse davanti. L’ombra luminosissima di Ford qui è ovunque, nei personaggi integri, nel mito di un’America ancora incontaminata, ancora Terra Promessa, nell’equilibrio sottilissimo tra volontà e nostalgia, l’ottimismo nel domani e il rimpianto per ieri. La capacità invisibile di attraversare oceani emotivi, dalla gioia alla tristezza, dall’ironia al dramma, senza far venire il mal di mare.
Lode agli attori, dai protagonisti ai comprimari, tutti eccezionali. Su tutti ovviamente quella Saoirse Ronan capace di trattenere tutto e di rivelare ogni cosa con l’alfabeto dei gesti, il movimento degli zigomi, le traiettorie degli occhi. Affiancata da veterani quali Jim Broadbent e Julie Walters e da due sparring partners maschili di altrettanta bravura: Domhnall Gleeson ed Emory Cohen, quest’ultimo autentica rivelazione.
La confezione, neanche a dirlo, è filologicamente ineccepibile, con le musiche trascinanti di Michael Brook, i costumi accurati di Odile Dicks-Mireaux e le scenografie preziose di François Séguin, capace di ricostruire - dal Canada - una Brooklyn non vera ma autentica, uno spazio a metà tra la geografia e l’immaginario. I colori (fotografia di Yves Bélanger) sono quelli del mélo, vividi e saturi, con la dominante del verde. Il colore delle praterie in cui forse nascerà la nuova patria di Ellis e quello della vecchia, l’Irlanda. Più di tutto, il colore della speranza.