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Bronson
Nicolas Winding Refn presenta… il detenuto più cattivo delle carceri britanniche, Michael Peterson. Condannato a 7 anni per rapina e poi asceso a fenomeno coatto (reclusione, ma non solo), perché quella pena è levitata a 34 anni (di cui 30 in isolamento) e oggi all'ergastolo causa irrefrenabili “intemperanze” dietro le sbarre. Circola una petizione per liberarlo, ma difficilmente il non-biopic del genietto danese, premio alla regia per Drive a Cannes, contribuirà al riesame: Bronson - il nickname con cui fu ribattezzato dal suo manager di street boxe - è un'iradiddio che butteresti via la chiave.
Crasi di Vin Diesel e Aldo Baglio, è lo straordinario Tom Hardy, con surplus di muscolatura, a dargli replica: non c'è trama, non c'è narrazione, piuttosto, rudi, crudi ma immaginifici tableaux vivants in prima persona singolare. In breve, che cinema è? Non un prison-break, perché il carcere è l'hortus conclusus di Bronson, che fuori è un disadattato imbelle, né uno slasher-movie, poiché le sparute efferatezze sono esternalità, né, ovviamente, cinema d'essai buono per (quasi) tutti i palati e i paraocchi: Refn sintetizza una molecola aliena, una scrittura privata da leggere tra le righe dei generi e l'interpunzione di un “cinema” altrove occhiuto e pastorizzato.
Al suo (metacinematografico) Bronson concede magnanimo il tu per tu con la camera, lo mette perfino sul palco di un music hall travestito da clown, ma c'è di più: in libera uscita è una splendida rappresentazione di un criminale e del suo habitat d'elezione, che la fotografia di Larry Smith sa accordare tra poesia e lirismo. Scorre il sangue e non si lesina sulle botte, ma questo calcolo agiografico (sui generis) ha per risultato un'iperrealistica catarsi, un affrancamento dalla prigionia audiovisiva ultima scorsa. A portarlo in sala è la benemerita One Movie, allo spettatore il gradito compito di togliersi le fette di cinemino dagli occhi e riscoprirsi giustizieri per immagini e suoni: in cattività è meglio. Almeno, per Bronson.