Il matrimonio, la perdita della verginità, la gravidanza. Riti di passaggio, all'ombra della morte. Adombrata, sfiorata, mai possibile. La saga giunge al capolinea e si autocelebra, in un falso movimento tautologico, rafforzativo: è Twilight - Breaking Dawn - Parte 1, ovvero la metà per immagini dell'ultimo romanzo della Meyer, trasposizione fedele alla logica dello spezzatino - galeotto fu Harry Potter - che lascia affamati gli spettatori mentre sazia i produttori, quelli che dividere (il racconto) vuol dire raddoppiare (gli incassi).
Un episodio, ribadiamo, che si parla addosso. La penultima parte è una lunga, lenta, crassa e vuota cerimonia rituale, che mentre manda a nozze Edward e Bella (Robert Pattinson e Kristen Stewart) celebra il matrimonio (rituale) tra l'epopea miliardaria e il suo pubblico di emo-ultrà. Un esempio di fidelizzazione tanto riuscita da non avere nemmeno bisogno di dire, vendere, proporre altro. Basta a se stessa, in piena esaltazione narcisistica, feticista. Tale è la fiducia (o l'arroganza?) dei suoi artefici. I fedelissimi risponderanno, gli altri si asterranno, la critica non può sottrarsi. Vorrebbe non offendere nessuno, ma pur intuendo la portata commerciale di un'operazione di puro, sfacciato, endorsement - il film è il logo che promuove il prodotto-saga - non può esimersi dall'entrare nel merito di un episodio che di meriti ne ha davvero pochi. Nessuno peraltro afferente al cinema.
A voler essere severi non sarebbe nemmeno corretto attribuirgli una patente cinematografica. Breaking Dawn manca di troppe cose di cui è fatto (dovrebbe) un film: una messa in scena adeguata, una recitazione recitata, una parvenza d'intreccio, una regia. I film sono un'altra cosa. Questa è accozzaglia audiovisiva - più audio che visiva: la colonna sonora è un succedaneo emozionale talmente invasivo da far sembrare di troppo le immagini -, pappa melodrammatica, soap-opera. Una sommatoria di architesti narrativi (l'amore, la malattia, la gelosia, la famiglia), rivestiti di un immaginario da grandi magazzini: quadri da rivista patinata, pose epigrammatiche, psicodrammi pubblicitari. Il vuoto con le apparenze del pieno, il banale (c'è anche la ceretta della prima notte di nozze) sommerso dal magniloquente, il ridicolo spacciato per tragico. E il cliché che divora tutto, vero parto (altro che l'alien portato in grembo da Bella) di un episodio che nemmeno si può definire brutto, significherebbe attribuirgli una valenza estetica.Per non dire del suo conformismo spaventoso, questo addebitabile almeno alla sua creatrice: non era facile privare di ogni ambiguità un testo popolato da licantropi e vampiri, eppure la Meyer ci riesce. Nel suo universo l'alterità non trova asilo. La mostruosità è una semplice denominazione del diversamente normale. Tutto può coesistere: luce e vampiri, mortali e immortali, giusto e sbagliato (vedi gli omicidi perpetrati da Edward in passato, da condannare ma non troppo: ha ucciso altri assassini), sacro e profano.In questo spericolato bazar iconico/morale la statua del Cristo Bianco di Rio vale quanto l'alcova di lusso in riva al mare: sono segni autoreferenziali, indicazioni di luogo, materiali mediatizzati di cui la saga si appropria per dotarsi di uno scenario immediatamente riconoscibile, un magazzino pop da rigattiere improvvisato. Dentro ci sono mercanzie varie e patacche. Una volta non si potevano toccare. Oggi non si dovrebbero nemmeno vedere.