“Sono come quelle persone che sono state così tanto tempo in prigione che dentro la galera sono qualcuno, appena escono non sono nessuno”.

Parola di Sergione, ex punk ora tatuatore abusivo di quasi cinquant’anni e 300 chili. Non si è mai mosso dal Bosco grande, un proletario pugno di strade a Palermo a ridosso della borghese via Catania. Le trasformazioni del mini-rione nei decenni definiscono il volto, la vita, la stanzialità del protagonista, assiso tra la sedia e il letto, “nella sua rotondità plastica degna di un Buddha” come suggerisce lo stesso regista Schillaci. Da covo in odore di malavita a scorcio piccolo borghese, dalla rivolta punk anni Ottanta ai tatuaggi da marciapiede. Un legame simbiotico, ineliminabile tra l’Io e il luogo. Il Bosco come nido tribale, come culla, gabbia e covo da cui è impossibile scappare, neanche per curarsi. Un fazzoletto lontano dai fasti barocchi della città dove il folklore, il misterico, il tragicomico, il reale, il grottesco si mescolano senza soluzione di continuità. E dove l’incertezza d’esistere è tutt’uno con l’impossibilità di scoprire un altrove, di smarginare gli orizzonti, di liberarsi dai propri fardelli.

Il siciliano Giuseppe Schillaci continua la sua microscopia di Palermo, tra romanzi e documentari (in principio furono soprattutto Apolitics Now - tragi-commedia di una campagna elettorale e L’ombra del padrino) isolando volti iconici che assommino su di sé tutta la tragicità e la vitalità di una città intesa come mondo a parte, da cui allontanarsi per tornare, per misurare i passaggi di tempo, rammaricarsi del nuovo e salvare l’identico.

Il regista emigrante cattura le tracce di permanenza della sua città, di stanzialità, di fissità, incarnate qui da Sergione con i suoi tatuaggi mentre, intorno, la città si trasforma in modo irreversibile.

Bosco grande
Bosco grande
Bosco grande

Un doc, dunque, ammalinconito e crepuscolare, innervato da una biografia sui generis, amara e irredenta, per una cinepresa che si scopre debitrice della cifra grottesca del cinema di Maresco nella voglia di trattenere e tramandare storie e paesaggi travolti dall’usura del tempo, dall’incombenza della morte, dai rivolgimenti sociali, dagli stravolgimenti urbanistici.

Lo sguardo di Schillaci è umanista ed intenerito, perché distrugge la distanza oggettiva con il protagonista e cerca, pur nel realismo sociale di base, l’empatia relazionale, pendolando tra città e individuo, tra gli scorci frondosi, le strade di Palermo e gli interni nel tinello di casa.

Al centro, così, si staglia la sardonica tragicità di un personaggio simbolo di immutabilità, perso in un vortice di birre, sigarette, tatuaggi, viavai e rimpianti. Un uomo alla costante ricerca di affetto che rifiuta il cambiamento, e rimane inchiodato a sé stesso, ovvero al luogo di nascita, come a una dolce, perpetua condanna.