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Borgman
Braccato da villici (e un prete) armati, Camiel Borgman esce – letterale - dal sottobosco, avverte gli amici e si presenta, capelli lunghi e confessa mancanza di igiene, alla porta di una famiglia altoborghese, Richard, la moglie Marina, i tre biondi figli e la tata, con una richiesta: posso fare un bagno? Ne prende di santa ragione (Richard), ma Marina ha il cuore tenero: lo ospita in segreto, lo sfama, e Camiel se ne approfitta. Per rimanere, aiutato dai suoi accoliti, Camiel fa sparire il giardiniere della famiglia e la consorte: testa nel cemento e tumulazione in un laghetto. Chi è Camiel? Perché agisce così?
Ebbene, queste domande sono la montagna, il film che dovrebbe rispondere un topolino: Borgman di Alex van Warmerdam, che riporta i Paesi Bassi in Concorso a Cannes dopo un'astinenza durata 38 anni. Intenzionalmente distopico, intimamente moralistico, Borgman non mantiene le tante premesse e promesse che pone in essere: ipocrisia e inautenticità borghese, razzismo serpeggiante, incomunicabilità coniugale, homo homini lupus, e chi ne ha più ne metta, finendo per non farsi prendere troppo sul serio. La riflessione cercata, una tra le tante, è sulla morte e sul desiderio, entrambi affidati alla non sempre cosciente aiutante (in senso semiotico) Marina: in realtà, la vera protagonsita è lei, e l'angelo vendicatore, o se volete il diavolo, Camiel non è che una proiezione mortifera dei suoi inconfessabili desideri. Peccato che il coperchio non tiene, e un ultimo, fatale bacio lascia sugli occhi l'amaro dell'incompiuto.
Tra la tante analogie, si pensa al migliore Dogtooth del greco Yorgos Lanthimos, qualche anno fa qui a Cannes al Regard: Alex van Warmerdam dovrebbe rivederlo, capirebbe dove ha sbagliato, soprattutto, quel che ha sprecato.