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Solo volti senza nome popolano i nebbiosi paesaggi di Blue Kids, esordio alla regia, tenuto a battesimo da Matteo Garrone, di Andrea Tagliaferri. La sorella, il fratello, il padre, la cameriera ragazza madre, il complice: figure impenetrabili che non meritano un’identità mentre si muovono come pedine impazzite in un mondo che scorre parallelo alle loro esistenze. Anche se la ricca e squallida provincia del nord Italia pesa parecchio sull’andamento del film, di fatto le azioni dei protagonisti rimangono apparentemente senza conseguenze sul mondo esterno.
Fratello e sorella (interpretati da Fabrizio Falco e Agnese Claisse) vivono un rapporto tanto simbiotico quanto silenzioso. La morte della madre sembra sfiorarli appena quando, muniti di stick al mentolo, fingono lacrime mute al suo funerale. Sono interessati invece alla sua eredità, lasciata interamente al padre, che dal notaio alla lettura del testamento sorride beffardo. I due figli però vogliono fare il giro del mondo, di “lavorare come facciamo tutti” non ne vogliono sapere; e siccome impugnare il testamento richiederebbe troppo tempo, trovano una semplice soluzione: fare fuori papino e compagna e prendersi tutto. Nel loro piano coinvolgono amici ingenui, abbindolati dalla loro calma tanto indifferente che sembra impossibile nasconda piani così sanguinosi.
Quando si parla di province ricche la perversione dei giovani impigriti solitamente sa di noia e per questo è ancora più diabolica. Ma in Blue Kids, sebbene suggerito, quest’elemento viene prevaricato da finte necessità, traumi psicologici troppo semplificati e moventi troppo palesi.
Né il film né i suoi protagonisti posseggono insomma lo struggimento di una cattiveria di spessore né la radicale crudeltà del duo di Funny Games. Scelte probabilmente consapevoli di Tagliaferri: l’ignavia della provincia viziata dove i sentimenti vengono polverizzati dal peso dei soldi forse non richiedeva altro e forse intende significare che dal nostro tempo e da certe geografie dell’anima non possiamo in fondo sperare, umanamente, di molto meglio.
Il film, bello visivamente e dalla fotografia piuttosto raffinata (di Sara Purgatorio), risente della mancanza di una compiutezza e di un approfondimento a livello di sceneggiatura necessario, se non per colpire al cuore o alle viscere, per scolpirsi nella mente. Trama e studio dei personaggi sembrano quelli di un cortometraggio anche se Blue Kids non lo è e la conclusione un po’semplicistica lascia perplessi. Le lacrime catartiche (solamente) del fratello davanti alla nonna che non può immaginare i delitti compiuti dai nipoti (unico tocco di calore umano nel film), la canzone che vuole alludere alla parabola della mamma snaturata (Balocchi e profumi: “Mamma, mormora la bambina…”) e il fatto che affondando l’ultimo cadavere i due fratelli sembrino inabissare il fardello dei delitti per poi correre liberi e felici nella natura si rivelano un finale inefficace. Agnese Claisse è assai brava nell’impersonare la “dura” della situazione, traino e vero cuore di pietra della coppia, ma il suo “karaoke del cattivo” è regredito a una canzoncina di Cristina d’Avena ed è (volutamente?) fiacco, svuotato e noioso rispetto al karaoke dello Zingaro di Jeeg Robot. Perché quello che manca a questi due cattivi è anche un minimo di ironia.
Se c’è qualcosa che può muovere i sentimenti è la ripetuta corsa frenetica del complice-cosplay che per primo cade nella trappola dei due fratelli: nell’immobilità di un mondo dove ogni risposta alle crudeltà di quei giovani Bonnie & Clyde è totalmente assente, quel muto scappare a gambe levate sembra l’unica reazione vitale e l'unica presa di posizione morale – per quanto ritardataria – in un mondo indifferente.