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Bleed
Il pugilato è la benzina dei condannati, è la scossa che alimenta la speranza di un bullo con sangue italiano (Rocky) o di un uomo piegato dalla Grande Depressione (Cinderella Man). Lo stesso Humphrey Bogart è rimasto scottato dall’universo della boxe ne Il gigante d’argilla, e anche Paul Newman è stato Rocky Graziano in Lassù qualcuno mi ama.
Miles Teller non ha il fascino dei grandi divi del passato, ma il suo Vinny Pazienza non delude, e conquista la platea con una caparbietà fuori dal comune. All’apice della sua carriera da boxeur, Pazienza rimane vittima di un terribile incidente d’auto. Sopravvive per miracolo e rischia di non poter più camminare: una frattura al collo lo costringe in un tutore di metallo che lo avvicina più a Frankenstein che al De Niro di Toro scatenato. Gli consigliano di ritirarsi, e ai suoi manager non interessa il destino di uno storpio, perché “lo spettacolo deve andare avanti” e soprattutto deve far guadagnare, come insegna Stasera ho vinto anch’io di Robert Wise.
Forse Pazienza avrà la sua rivincita, forse soccomberà a un amaro destino, ma in ogni caso l’inferno dell’atleta italoamericano riesce nell’ardua impresa di rinfrescare un genere usurato dal tempo. Bleed – Più forte del destino strizza l’occhio ai grandi classici, e si ferma a metà strada tra il successo pop di Creed e le grandi interpretazioni di The Fighter. All’epoca Christian Bale perse quaranta chili per dar vita a Dickie Eklund, il coach di Micky Ward (Mark Wahlberg). Invece Aaron Eckhart ingrassa a dismisura e perde i capelli per allenare il suo determinatissimo pupillo: un Miles Teller tutto muscoli e cuore ormai lontano dalle folli jam session alla batteria di Whiplash.
Il regista Ben Younger dirige una memorabile sequenza iniziale, per poi affidarsi al fascino dei guantoni quando si sale sul ring. Tra le corde di quel maledetto quadrato s’infrangono sogni e nascono campioni, ma la vera lotta è nel mondo reale, dove le disgrazie attendono impunite di abbattersi sul Vinny Pazienza di turno.