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Black Phone © Universal Studios
Dopo la parentesi Doctor Strange (2016), Scott Derrickson torna nel suo ambito d’elezione, l’horror, genere che lo portò alla ribalta internazionale dapprima con L’esorcismo di Emily Rose (2005), poi con Sinister (2012), film quest’ultimo che vedeva Ethan Hawke protagonista.
L’attore torna stavolta nelle vesti del macabro villain, “The Grabber” (il rapitore letteralmente, il “rapace” nella versione italiana), psicopatico finto-mago che rapisce, tortura e uccide gli adolescenti di un sobborgo di Denver alla fine degli anni ’70.
Lo spunto di Black Phone è tratto dall’omonimo racconto breve di Joe Hill (figlio di Stephen King): il protagonista è Finney (Mason Thames), tredicenne timido ma perspicace, che con la sorella minore Gwen (Madeleine McGraw) condivide lo stesso istituto scolastico e un padre alcolizzato e violento.
(from left) Finney Shaw (Mason Thames) and Gwen Shaw (Madeleine McGraw) in The Black Phone, directed by Scott Derrickson. © Universal StudiosDerrickson, che torna a firmare una regia per la Blumhouse, imbastisce un ottimo prologo, delimita contesto storico e introduce le sfumature caratteriali dei vari personaggi con estrema naturalezza: sullo sfondo, naturalmente, le sparizioni dei vari ragazzini. E, contemporaneamente, il misterioso “dono” di Gwen che sogna inspiegabilmente dettagli relativi ai rapimenti.
Fino a che, appunto, il bambino rapito non è Finney. Ed entra in gioco il telefono nero del titolo. Rinchiuso in un seminterrato insonorizzato dove urlare serve a poco, il ragazzo si accorge che quel telefono appeso al muro, e scollegato, in realtà inizia a squillare. Dall’altra parte del filo ci sono le voci delle precedenti vittime dell’assassino, pronte a fare di tutto perché ciò che è successo a loro non accada anche a Finney.
È naturale che da questo momento in poi la solida impalcatura thrilling che reggeva il film prende una nuova piega: Derrickson sa come giocare con i suoni e con le immagini, non v’è dubbio, come è altrettanto pacifico che qualche trovata disturbante infilata qui e lì non manchi.
Ethan Hawke in The Black Phone © Universal StudiosSi fa fatica però a sospendere l’incredulità così a lungo per quello che riguarda tutto l’impianto “soprannaturale” della vicenda, che giocoforza poggia sul processo di crescita di Finney in termini di coraggio e consapevolezza, attraverso il sacrificio che hanno dovuto pagare i suoi coetanei predecessori.
L’ispirazione per il racconto trae origine da un ricordo d’infanzia dello stesso Hill (“Sono cresciuto a Bangor, nel Maine, in una casa molto antica. Nel seminterrato c'era un telefono scollegato, è una cosa che trovavo spaventosa e inquietante. Non aveva senso che un telefono si trovasse in un seminterrato dal pavimento sporco e le pareti di cemento fatiscenti. Da bambino, la cosa peggiore che potessi immaginare era sentire squillare quel telefono”), che nelle mani di Derrickson e del co-sceneggiatore C. Robert Cargill prende la forma cinematografica di un racconto di formazione di matrice orrorifica.
Sostanzialmente la complessità emotiva dell’infanzia, compresa la questione del bullismo, viene in qualche modo rinchiusa in quel seminterrato: per sopravvivere, avere la meglio sul “mostro”, uscire fuori di lì, è inutile sperare arrivi qualche adulto a darci una mano. Bisogna farcela da soli, magari anche grazie all’aiuto di una sorella minore che, a sua volta, implora Gesù di avere qualche indizio in sogno.