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Con il primo Black Panther, il cinema afro aveva fatto un passo avanti. Il supereroe black rivendicava la sua centralità, ergendosi a paladino di un mondo in cui doveva lottare per conquistarsi il proprio posto. Il successo è stato planetario. È un fenomeno che parte da lontano, che non si ferma solo al classico eroe Marvel.
Non a caso dietro la macchina da presa c’è Ryan Coogler. Il suo esordio con Michael B. Jordan (sempre presente nei suoi film) era stato Prossima fermata Fruitvale Station, la storia delle ultime ore di vita del ventiduenne Oscar Grant. Il focus era sul corpo del protagonista di colore, massacrato, martoriato. Allo stesso modo in Creed – Nato per combattere si parlava di pugilato, di un ring in cui dietro ai guantoni c’erano i diritti civili.
L’arrivo di Black Panther è stato un percorso naturale. La vittima si rialza, si fa protettore, padrone del suo destino. L’epica muta in tragedia. Chadwick Boseman, il Black Panther originale, è morto due anni fa. L’idea è di trasportare ciò che è successo all’interno del sequel Black Panther: Wakanda Forever, senza “sostituire l’attore”. Tutto è narrazione, nasce una stirpe, fondata sulla memoria, come era successo anche in Fast & Furious 7 con Paul Walker. Il finale, con le strade che si dividono, ha segnato l’immaginario di molti.
In Black Panther: Wakanda Forever i toni sono esplicitamente politici. Si parla di integrazione, di sfruttamento dell’Africa, di appartenenza alla propria terra e di identità dilaniate. E si prosegue con la riflessione sul “corpo”, quello del sovrano che non c’è più. Non lo vediamo mai, vive il ricordo, l’elemento sentimentale che si fonde con quello celebrativo. Si passa dalle ferite in vista, dai muscoli che si tendono, a qualcosa di più interiore, forse anche cerebrale, che trova la sua concretezza in una bara. È interessante come nell’epoca in cui tutto è post e in evidenza, si decida di nascondere, di rendere l’immagine misteriosa e di non svelarla. Marketing o intuizione narrativa? Forse entrambe.
Però in un’avventura Marvel, in cui tutto è sempre sotto i riflettori e ipertrofico, come impone il genere, si tratta di un’inversione di rotta. Poi forse l’andamento da comizio e il politicamente corretto potevano essere limati, ma il background dei personaggi è solido, accompagnato da una colonna sonora dirompente. Dalla terra si passa all’acqua, come sarà per il franchise di Avatar (sempre di casa Disney), i colori si accendono per poi spegnersi nella tonalità della notte. Con tutte le sue imperfezioni, il ruggito della Pantera Nera risuona potente, a Wakanda e non solo.