Il cinema ama le love story al limite, che abbracciano l’impossibile (possono sposarsi due agenti segreti?) per poi avvicinarsi alle esperienze degli uomini comuni. Mettere una coppia di killer sotto lo stesso tetto può generare risultati inaspettati. Mr. & Mrs. Smith (di Doug Liman e non di Hitchcock) si soffermava sulla terapia di coppia di due assassini di professione. I volti erano quelli di Brad Pitt e Angelina Jolie. Il film fu galeotto e nacquero i Brangelina, padroni del glamour per parecchio tempo.

Ma Black Bag – Doppio gioco di Steven Soderbergh prende un’altra direzione. Anche qui abbiamo due star: Michael Fassbender e Cate Blanchett. Nella storia sono marito e moglie, ed entrambi hanno un mestiere top secret: sono 007. A un certo punto lui deve dare la caccia a lei, e la situazione si fa incandescente. Non pensate che si tratti della classica spy story, perché Soderbergh è uno dei migliori in circolazione dietro la macchina da presa, oltre che uno dei più attivi. Sempre pronto a sperimentare, si sofferma sui generi, sulle immagini, le manipola, prova a utilizzare nuovi mezzi espressivi. Pensiamo ad Unsane che era stato realizzato in una settimana con uno smartphone (potenziato) oppure a Kimi – Qualcuno in ascolto, una profonda riflessione sul lockdown. È un cineasta che ama cambiare, e si sposta dai criminali agli spogliarellisti, da Che Guevara al basket.

Con Black Bag il regista si misura con uno dei filoni più redditizi dello schermo. Da pioniere, sembra essere lui (e magari dovrebbe) a realizzare il prossimo capitolo del franchise di James Bond, anticipando Amazon. La scena iniziale è come la prima pagina di un libro, ci immerge in un universo inesplorato. Con un lungo pianosequenza (che ricorda la cavalcata di Ray Liotta al Copacabana in Quei bravi ragazzi di Scorsese), la macchina da presa segue Fassbender mentre entra un locale notturno.

È come se Soderbergh ci accompagnasse all’interno del mondo. Il suo cinema è una seduta psicanalitica, che in questo caso guarda più a John le-Carrè che a Ian Fleming. Ancora una volta c’è una sottotraccia morale. Il lavoro o il matrimonio? La fedeltà è alla patria o al sentimento? Non saremo noi a rispondere. C’è uno sguardo etico che si fa azione. Soderbergh sembra seguire il Clint Eastwood di Giurato numero 2. Il maestro americano insegnava che la giustizia non sempre corrisponde alla verità e che la verità non sempre corrisponde alla giustizia. La stessa massima la si può applicare a Black Bag, nel suo essere un esplosivo mix di intrighi, un action romantico dai toni marcati e ricco di sfumature.

Si riflette sulla menzogna, sul continuo mutare della realtà. Proprio come in Sesso, bugie e videotape, in cui un giovane James Spader si confessava a Andie MacDowell: “Ero io il problema, ero un bugiardo patologico. Dovrei dire che lo sono ancora. Mentire è come essere alcolizzati. Cerchi sempre di smettere ma…”. Allo stesso modo Fassbender in Black Bag domanda a Cate Blanchett se lei sarebbe capace di mentirgli. Lui non lo farebbe mai, mentre lei “solo se deve”. C’è quindi un filo rosso che unisce i film di Soderbergh, fin dall’esordio: la psicologia, la colpa, la redenzione, il potere delle immagini. Esaltando la parola, l’inganno, la ricerca di sé stessi.

Black Bag è una conferma, un passo a due, un tango quieto che esplode nei momenti di maggiore calma. In più Soderbergh si conferma inarrestabile: a luglio arriverà in sala Presence, un horror che, come suggerisce il titolo, farà visitare allo spettatore gli angoli bui di una casa infestata.