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Billy
“Ma quanti anni hai?!” chiede stupito Zippo, un rocker scapestrato scomparso da anni e rispuntato dal nulla, a Billy, un diciannovenne che sembra avere alle spalle più vita di quanto possa certificare l’anagrafe. È come se Billy l’abbia già vissuto, il suo “grande avvenire”. Da piccolo, a nove anni, quando ha inventato e condotto un popolare podcast di musica.
All’epoca, quel rocker, Zippo, era il suo idolo; ma, all’apice del successo, durante un concerto, salì su un autobus e fece perdere le sue tracce. Billy è forse l’ultimo che conserva memoria di quella star dimenticata che, sparendo, si condannò all’oblio. Un po’ come il padre, che se n’è andato quando Billy era troppo piccolo per capire e, dunque, ricordare.
È cresciuto solo con la mamma, una signora eccentrica e umorale dal nome troppo altisonante, Regina, che forse nasconde qualcosa di più triste, magari luttuoso. E, mentre cova l’amore per Lena, la vicina di casa che s’innamora spesso ma mai di lui, passa le giornate con dei bambini più piccoli di lui, quasi a voler acciuffare il tempo sospeso, a riallinearsi al momento in cui tutto è cambiato: sì, ma cos’è successo a Billy, che sin da bambino soffre di attacchi da panico?
Come in un romanzo di formazione che elude l’attualità per collocarsi in uno spazio a tratti onirico, Billy (evento di chiusura al 41° Bellaria Film Festival, in sala dal 1° giugno) contiene tante cose, perfino troppe, con la generosità di chi sa intercettare gli inciampi della crescita (infanzia e adolescenza sconfinano l’una nell’altra), l’incidenza del coro nel percorso personale (famiglie ed altri animali), la malinconia come gioia di essere tristi.
Alla regia c’è – e si sente, si vede – un’esordiente di ventisette anni, Emilia Mazzacurati (figlia del mai dimenticato Carlo), che ha la delicatezza – anzi: il coraggio – di mettere coloro che sono “in fieri” (i giovanissimi) nella condizione di indicare agli adulti (interrotti) una strada per cambiare e pensarsi diversi, mentre la luna compie la rotazione completa attorno alla terra illuminando un po’ alla volta i personaggi e le loro vite.
E lo fa scegliendo una terra di nessuno e di tutti, una provincia (del Nord, diciamo tra la Romagna e il Veneto) che esiste nella misura in cui trascende il realismo, una patria di spatriati che nello spaesamento emotivo e culturale scoprono lo straniamento mentale e fisico, in quella convergenza impossibile in cui si incontrano la poetica dell’objet trouvé e il design pop, i paesaggi di Luigi Ghirri e il blues di Ry Cooder e le geometrie di Wes Anderson e le malinconie di Mike Mills.
Una favola gentile ma non innocua, surreale senza dimenticare le radici, più distesa che lenta, che inserisce Mazzacurati nell’alveo di quelle autrici – spesso debuttanti – che partono dal local (la provincia) per guardare oltre i confini (pensiamo, al di là degli esiti, ad Amanda di Carolina Cavalli e Marcel! di Jasmine Trinca, ma anche i lavori di Paola Randi, Andrea Magnani, Antonio Padovan).
In un ruolo non facile, Matteo Oscar Giuggioli ha fascino e complessità, ma c’è un bell’apporto di tutto il cast “senior” (Alessandro Gassmann in “amichevole partecipazione”, due affezionati di Carlo Mazzacaurati come Giuseppe Battiston e Roberto Citran, un’elegante Sandra Ceccarelli). Spicca la mamma Carla Signoris che offre anche la chiave di lettura della storia: “Amore, meglio vivere al di sopra delle proprie possibilità che non vivere affatto”.