PHOTO
© 2024 PARAMOUNT PICTURES. ALL RIGHTS RESERVED.
A distanza di poco più di un anno da Robbie Williams, la docuserie in 4 puntate Netflix in cui la popstar britannica si metteva a nudo raccontando il lato oscuro (alcolismo, tossicodipendenze, depressione) della sua esistenza, ecco che nelle sale (in Italia dall’1 gennaio 2025, con Lucky Red, oggi in anteprima all’Auditorium di Roma alla presenza del cantante) arriva Better Man, musical live-action che ripercorre le tappe dell’ascesa fulminea dell’ex Take That (all’epoca sedicenne), della drammatica caduta e della successiva rinascita di uno degli artisti musicali più premiati al mondo.
Audace nelle premesse – il personaggio (interpretato da Jonno Davies) è restituito con le sembianze di una scimmia sin dalla tenera età (“è questo il modo in cui mi sono sempre visto io”) – a tratti trascinante, a tratti infarcito di massicce dosi di retorica, il film diretto da Michael Gracey (The Greatest Showman) tenta di ridisegnare le traiettorie del biopic canonico: narrato in prima persona dallo stesso Williams, Better Man prende le mosse dall’infanzia del protagonista a Stoke-on-Trent, delineando già nel prologo il tema cardine e sottinteso dell’intera operazione, ovvero il rapporto conflittuale con il padre (Steve Pemberton), figura idolatrata, entertainer che di punto in bianco abbandona lui e la moglie per inseguire il sogno di una carriera sotto i riflettori.
Sinatra, Sammy Davies Jr. e Dean Martin i numi tutelari, “quella cosa o ce l’hai o non sei nessuno” come mantra esistenziale, le crepe di un’insicurezza paragonabile alla sindrome dell’impostore nascono allora e si cementificano all’indomani di quel successo galattico, nonché prematuro, che in un certo senso lo bloccheranno per sempre dentro la testa di un adolescente.
“Non mi sono mai evoluto”, dice non a caso in un momento di condivisione durante il rehab di qualche anno più tardi: “Ho ottenuto tutto quello che desideravo”, ma la scissione tra Robert e Robbie (per il primo il padre non c’è mai stato, per il secondo sì…) non fa altro che acuirsi di più ogni volta che la fama aumenta. Fino a diventare insostenibile.
Tutte cose che, come detto, già erano state affrontate nella docuserie citata poc’anzi: stavolta a mutare è la modalità con cui vengono raccontate (e ci si ferma ben prima della seconda vita del protagonista, quella con l’attuale moglie e madre dei suoi 4 figli, Ayda Field), e nel tripudio di CGI e performance capture che caratterizza l’operazione (e al tempo stesso ti fa quasi sembrare di essere dentro un Planet of the Apes con le canzoni di Robbie Williams…) c’è spazio per momenti di indubbio impatto (la coreografia con i Take That a Piccadilly Circus, l’incontro sullo yacht con Nicole Appleton delle All Saints, con la quale più avanti Williams stava per diventare padre ma lei venne obbligata ad abortire dalla London Records…) e proiezioni oniriche spaventose (il crescendo minaccioso di altri da sé che la superstar continua a scorgere tra le folle oceaniche dei suoi concerti…), fino al commovente epilogo dove la via per la rinascita sembra definitivamente imbroccata, con Robbie-Robert che può finalmente riallacciare quel filo con il padre, naturalmente a modo suo, con il duetto sulle note di My Way di Frank Sinatra.
Anticonvenzionale sulla carta, volutamente incongruente per quello che riguarda cronologia dei brani utilizzati e alcuni dettagli di certe situazioni, Better Man ha dalla sua l’indiscutibile forza trainante del personaggio che racconta, l’ambizione di smarcarsi dalle maglie delle solite agiografie patinate e l’indubbia capacità di sapersi rivolgere tanto alle/ai fan di Robbie Williams quanto al resto del grande pubblico. Per tutto il resto è molto meno “rivoluzionario” di quanto vorrebbe/dovrebbe essere: ma, si sa, etichettare in maniera assoluta i film fa sempre bene.