Conoscere, catalogare. Nel Medioevo i bestiari erano libri che raccoglievano le descrizioni dei vari animali (esistenti o meno), gli erbari elencavano le piante e le loro relative proprietà curative, i lapidari infine le rocce e i minerali conosciuti.

Un tempo, si legge nei vari cartelli che animano il primo atto del nuovo lavoro di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (appunto, Bestiari, erbari, lapidari, documentario fiume Fuori Concorso all’81. Mostra del Cinema di Venezia), si pensava che gli animali più potenti fossero quelli che dormivano di più, semplicemente perché potevano sognare maggiormente.

Dal momento in cui l’uomo è entrato nei sogni degli animali, pretendendo poi di uscirne, ecco che l’equilibrio del mondo è cambiato drasticamente: “Il cinema inventa nuove gabbie”, questa la descrizione del primo dei tre atti – ognuno dei quali teso ad omaggiare gli animali, le piante e le pietre – ognuno dei quali realizzato dai due autori in luoghi differenti e attraverso tecniche documentaristiche differenti.

Bestiari (73’) segue le traiettorie di un found-footage atto ad illustrare come e perché il cinema – sin dalle sue origini – si sia così ossessivamente interessato alla rappresentazione degli animali: dal precinema di Muybridge alle spedizioni di Amundsen, finendo per ragionare sull’immediatezza di un’immagine che durante un safari “cattura” tanto il cineoperatore quanto chi sta per premere il grilletto di un fucile.

Filmati, studiati, catturati (e rinchiusi nei vari zoo in tutto il mondo), derisi e uccisi (sì, anche in nome della scienza come ricordano le immagini di repertorio con i topi cavie di laboratorio), gli animali ora dormono profondamente, magari sognando, mentre in una clinica veterinaria sono sottoposti ad interventi chirurgici di vario tipo (immagini non adatte ai deboli di stomaco).

Erbari (73’) è realizzato quasi interamente all’interno dell’Orto Botanico di Padova, il più antico del mondo (fondato nel 1545), luogo come ricorda l’attuale prefetto Tomas Morosinotto che “rappresenta la culla della scienza, degli scambi scientifici e della comprensione delle relazioni tra la natura e la cultura”: il dispositivo adottato stavolta è quello del documentario poetico d’osservazione, “La cura” è il sottotitolo scelto per descriverne le intenzioni, la deriva è struggente quando si arriva a riesumare “L’erbario di guerra” che Bruno Ugolini – cultore botanico caduto sul fronte nel 1917 durante il primo conflitto mondiale – lasciò in eredità al padre.

Lapidari (62’), infine, “i fossili del futuro”, parte con l’etimologia della parola “fossile” (dal lat. fossĭlis «ottenuto scavando», der. di fodĕre «scavare») e si sviluppa seguendo le coordinate del film industriale sulla trasformazione della pietra in memoria collettiva: la materia prima si fa cemento, il cemento ritorna pietra (d’inciampo) per tenere in vita il ricordo di donne, uomini e bambini che la parte oscura della Storia ha perseguito, catturato e annientato nei campi di concentramento nazisti.

Dopo Spira mirabilis – film che in quattro atti tentava di catturare l’essenza invisibile degli elementi – e Guerra e pace – che sempre in quattro atti cercava di delineare il rapporto tra il cinema e i conflitti – D’Anolfi e Parenti stavolta tentano di ristabilire la connessione tra il nostro mondo e quello di animali, vegetali e minerali, mondi che dovremmo tenere in dialogo costante ma che troppo spesso diamo per scontati (nel migliore dei casi) o sfruttiamo senza alcuna pietà, né rispetto.

Certo, la durata complessiva dell’opera (208’) è proibitiva e difficilmente si riuscirà a trovare un riscontro “commerciale” di rilievo (magari ad ottobre quando Luce Cinecittà lo porterà nelle sale si potrebbe optare per una distribuzione separata dei tre atti), ma Bestiari, erbari, lapidari – titolo meraviglioso, “viaggio sentimentale tra cultura, scienza e arte del nostro vecchio continente”, come lo definiscono i due autori – conferma l’innegabile profondità di sguardo della coppia di documentaristi, ancora una volta abilissimi a riflettere sulla stretta connessione tra il nostro sapere e la possibilità di preservarlo (o meno) e consegnarlo al futuro, attraverso le immagini.