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Berlinguer. La grande ambizione
C’è una scena che dice molto di Berlinguer. La grande ambizione (film d’apertura della XIX Festa del Cinema di Roma; il titolo arriva da Gramsci: “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo”). Il segretario è a casa, sta preparando un discorso, seduto alla scrivania posizionata all’angolo del salotto: il momento è delicato, il progetto dell’eurocomunismo impone delle scelte radicali (la rinuncia ai fondi straordinari elargiti dall’Unione Sovietica), il compromesso storico è percepita come una proposta troppo ardita, i russi non approvano, gli americani sono incuriositi, i democristiani temporeggiano. A un certo punto alla voce fuori campo di Berlinguer si accavallano quelle in campo dei figli: chiacchierano, scherzano, forse bisticciano.
Nel quotidiano politico irrompe il lessico famigliare, il militante completamente assorbito dalla missione che convive nello stesso corpo – irrequieto nei movimenti, educato alla ginnastica, vestito con giacche troppo larghe – con il padre ossessionato dall’assenza in casa, l’orfano che beve sempre quel latte somministrato da ragazzo alla mamma morente con l’utopia di guarirla.
Non è un caso che l’evento che ci fa capire quanto Berlinguer sia scomodo per i sovietici avvenga proprio quando l’interprete, in auto, gli pone una domanda personale, addirittura relativa al film preferito: il segretario fa un sorriso, quasi scoprendo in quell’attimo stesso di non avere risposta a un quesito che non si è mai posto davvero (la proverbiale timidezza affiora nell’evidenza di come quest’uomo sia così divorato dalla passione politica da non poter prestare attenzione ad altro), ma non ha il tempo di rispondere.
È così fluido il modo con cui Andrea Segre si muove tra privato e pubblico (decisivo il contributo di Benoît Dervaux, direttore della fotografia per i Dardenne che qui gioca sulla grana e su una leggera desaturazione), tra interni che dicono tutto di chi li vive (il rigoroso ma vivo comitato centrale di Botteghe Oscure, l’abitazione di gusto ma senza concessioni al consumismo, il Kremlino che quasi diventa un tribunale) ed esterni che raccontano il rapporto con la collettività (i comizi tra le baracche di una borgata, le Feste dell’Unità, i pranzi nelle case del popolo), il mettersi alla pari con i militanti (gli incontri in fabbrica), gli incontri furtivi con l’avversario (con la preoccupazione che la scorta faccia troppo tardi).
Pur restituendo un pezzo della vita di Berlinguer – si copre il periodo compreso tra il 1973, anno dell’attentato che subì a Sofia, al 1978, nei giorni del sequestro Moro – quella di Segre (che ha scritto il film con Marco Pettenello) è una biografia completa, limpida senza rinunciare alla complessità di un personaggio tanto iconico quanto ordinario, che sfida l’agiografia e la retorica e abbraccia lo scandaglio umanista e la dimensione emotiva, mettendo al centro l’assillo dell’unità e la sconfitta di un progetto.
C’è un Elio Germano meraviglioso e naturalmente carismatico (“Il capitalismo si basa sulla competizione, il socialismo sulla collaborazione”: difficile dirlo meglio e infatti lo dice ai figli durante un picnic) che all’imitazione preferisce l’evocazione mimetica (l’accento sardo non è caricaturale, per dirne una). Ed è bellissimo nonché inedito lo spaccato della vita di partito, tra ex partigiani nostalgici (il Pecchioli di Paolo Calabresi) e compagni veraci (il Menichelli di Giorgio Tirabassi, memorabile), asprezze (la sostituzione di Cossutta, l’offerta irrifiutabile a Ingrao) e gioie (i dati elettorali raccolti prima del Ministero), ma restano impresse le apparizioni del clamoroso Paolo Pierobon come Andreotti.
Segre fa anche uno straordinario utilizzo dei materiali di repertorio (il montaggio sulle note di Eppure soffia di Pierangelo Bertoli), si serve con intelligenza della radicale e metafisica colonna sonora di Iosonouncane e riesce nell’impresa di un film alto e popolare, commovente e libero, nostalgico e vivissimo.