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(L to R) Judi Dench as "Granny", Jude Hill as "Buddy" and Ciarán Hinds as "Pop" in director Kenneth Branagh's BELFAST, a Focus Features release. Credit : Rob Youngson / Focus Features
Immagini della città: dall’alto, da lontano, panoramiche. Illustrative più che turistiche. Poi il bianco e nero dei ricordi: la città è tutta chiusa in una strada ed è un idillio patinato, quasi un teatro, dove la gente saluta sempre, i vicini tengono d’occhio il figlio della famiglia accanto e i bambini giocano per strada.
Se per Kenneth Branagh questa Belfast si configura già come un rimpianto nostalgico, per Buddy, il suo avatar infantile (Jude Hill, splendido), è semplicemente tutto il suo mondo, l’unico che conosce e che immagina per il futuro, ed è un mondo senza traumi: pulito, nitido, una costruzione idealizzata dagli occhi di un bambino. Ma, ecco la rottura, non basta una spada di legno e il coperchio di un cestino come scudo per fronteggiare le molotov.
È il 15 agosto 1969 e un gruppo di estremisti protestanti mette a ferro e fuoco le vie abitate dai cattolici, compresa quella della famiglia di Buddy (protestante), costringendo il governo britannico a inviare un folto contingente di truppe per ristabilire l’ordine e proteggere i cattolici. Le vicende di Belfast si sviluppano nei mesi che seguono questo evento drammatico, ma in una qualche misura lasciano che il sangue della storia scorra sottotraccia.
Belfast non è un film storico, forse non è nemmeno un vero period drama. È vero, probabilmente Branagh è un po’ superficiale nel trattare il discorso della guerra civile che ha devastato l’Irlanda del Nord, i cui contraccolpi continuano tuttora. Ma la scelta – scaltra finché si vuole, ma è una scelta – è di mettersi ad altezza di bambino, adattarsi ai suoi strumenti di comprensione e misurando l’impatto del conflitto etnico-nazionalista sullo sguardo infantile, anche a rischio di semplificare la complessità della faida a una serie di violenti tafferugli organizzati da abietti figuri.
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Molti hanno tirato in causa Roma di Alfonso Cuarón, a ragione: collettivo e privato, grande storia e lessico familiare, bianco e nero da arthouse (interrotto da alcune irruzioni del colore visto sul grande schermo). E, sì, Anni ‘40 di John Boorman è una bussola importante. Due capolavori, cosa che Belfast non è: però più che un racconto di formazione, è un film che riformula in chiave spudoratamente romanzesca un passaggio fondamentale della vita di Branagh/Buddy mettendo in campo le scorribande, l’ambizione scolastica, il primo amore sullo sfondo di una comunità spezzata.
Con un filtro mitizzante che illumina i genitori, bellissimi e radiosi perché adorati senza riserve, sia quando litigano per troppe tasse arretrate che significano altri sacrifici futuri sia quando danzano come Ginger e Fred sulle note di Everlasting Love (sono Jamie Dornan e Caitríona Balfe, ottimi).
Belfast sembra edificarsi proprio sulla celebrazione dell’amore come ideologia, una politica degli affetti che trova compimento nello splendido ritratto dei nonni, i magnifici Ciarán Hinds e Judi Dench, veri e propri architravi di un’educazione sentimentale fondata su pochi concetti e tanti gesti, semplici e profondissimi (trovare il proprio posto nel mondo, capire con chi vogliamo condividerlo, sapere chi vogliamo essere).
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