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Behemoth
Raramente quest'anno abbiamo visto fondersi con una tale stringente necessità potenza visiva e urgenza narrativa, come in Behemoth, il film di Liang Zhao sui minatori della Mongolia. Il discorso travalica ovviamente Venezia, dove pure ha sparigliato le carte del concorso. Quest'opera per certi versi inclassificabile, come solo può esserlo un'opera d'arte, è tra le cose più preziose di un'annata cinematografica non certo memorabile. Perché?
Perché ti rimane dentro. Perché Liang Zhao riesce a creare sullo schermo qualcosa insieme di nuovo e di antico, facendoci doppiamente testimoni, di un'epifania di bellezza e di orrore. Perché è parte di un cinema che sposta i tanti confini compresi in una visione: sensoriali, emozionali, morali.
Non sorprende dunque che al di là dei facili accostamenti discorsivo/narrativi Liang Zhao abbia voluto far parlare un film dove nessuno parla con la Divina commedia, per cui Dante forgiò una lingua nuova.
Behemoth riesce a far convivere con sbalorditiva armonia il documentario e la fantascienza, il verismo e l'avanguardia, la prosa e la poesia, l'impulso etologico e il lamento umanista. E' un poema visivo-sonoro che dischiude finalmente tutto lo splendore del 4K per offrire non un appagamento estetico ma l'intensità violenta e sconvolgente di un mondo informe, che emerge dal caos: acque laviche, nuvole di cenere e lapilli, rocce incandescenti, carbone e fiamme. L'inferno. Nel quale Liang Zhao ci guida come un muto Virgilio, spingendoci fin dove si può, nel tramestio degli elementi in guerra, di là delle possibilità dell'occhio umano. In questo girone dantesco lavorano i minatori, gli ultimi della terra, prima inquadrati da lontano, come tanti soldatini alla corte del diavolo, quindi da sempre più vicino vicino vicino. Fino a vedere i pori delle loro facce deturpate.
Poi si sale: il purgatorio è una teoria di corpi devastati, attaccati a tubi e tubicini. Qualcuno tira fuori del liquido nero dai loro polmoni. Il cuore nero della miniera. E del mondo. E ancora più su, il paradiso. Palazzoni dai colori pastello in quartieri residenziali, tutti disabitati. La città della gioia è una città fantasma.
Il destino di questa ascensione tutta terrena, di questo progresso che come Behemoth, la biblica bestia, è insaziabile, è deserto umano. Non c'è spazio per noi. Insensato il lavoro laggiù per quel niente quassù. Forse è questo il senso di quella presenza nuda, stesa sulla roccia e sul prato, fantasma di un'antica armonia perduta. Qualcosa di irrimediabile è accaduto, si è compromesso, nel rapporto con la natura, con l'anima del mondo. L'immagine stessa ha perduto la sua unità e purezza originaria, è sezionata, tagliata, è il riflesso di un diamante.
Behemoth ha la forza evocativa e profetica di un Koyaanisqatsi e il coraggio di un grande apologo politico. Ma parla ancora la lingua dell'uomo, per l'uomo. Chiedendosi: ci sarà qualcuno capace ancora di capirla?