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Beetlejuice Beetlejuice
I maestri non sbagliano mai dietro la macchina da presa, al massimo siamo noi che, con l’andare degli anni, non siamo più in grado di capirli. È una provocazione, s’intende. Ma forse c’è un fondo di verità in tutto questo. Tim Burton è tra i migliori creativi che ci siano stati nella nostra epoca. Ha saputo rielaborare la storia del cinema (l’espressionismo tedesco e non solo) per regalarla al pubblico con spirito pop, sempre trasversale e mai elitario.
Beetlejuice è per lui l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, da cui ripartire. Nel 1988 l’originale era sembrato una pazzia. Era un altro decennio, i meno attenti si erano indirizzati subito su un’improbabile rivisitazione di Ghostbusters. Ma non era così. Eravamo molto vicini in realtà, ancora una volta, ai capolavori, a Hellzapoppin' di Cole Porter, in cui il delirio si faceva regola di vita e si lanciavano le basi per il cinema a venire.
A trentasei anni di distanza, Tim Burton risveglia la sua creatura. Richiama i collaboratori di sempre (Michael Keaton, Winona Ryder), inserisce gli amori di oggi (Monica Bellucci) e rinvigorisce il suo incredibile talento colorato e fuori dalle righe. Beetlejuice Beetlejuice è stato scelto fuori concorso per aprire la nuova edizione della Mostra del Cinema di Venezia. E decisamente con merito.
Si riscoprono le antiche atmosfere fiabesche, si torna ad abbracciare il gotico in un’avventura trasversale, che affascina ogni tipo di pubblico. Beetlejuice diventa un personaggio che è figlio della follia della nostra società. È uno spiritello scatenato, un po’ “porcello”, come sosteneva non troppo gentilmente il sottotitolo di un tempo, però ha un cuore grande. I suoi sentimenti, anche se sempre figli di qualcosa di repellente, riescono a renderlo estremamente umano. È proprio qui la magia di Burton: l’inumano che si fa concretezza, essenza, combustibile di un immaginario che si rischia di perdere.
In tanti hanno provato a imitare la sua regia, ma solo lui può essere sé stesso nonostante le difficoltà, le imposizioni e i fisiologici momenti più complessi. Beetlejuice Beetlejuice si fa quindi specchio di una contemporaneità ultraveloce, dove non c’è spazio per l’immedesimazione nell’altro. È un monito a un contemporaneo ormai lanciato a tutta velocità contro un muro. È un ottovolante verso il domani, che però è ben radicato nel presente.
L’animo è irriverente, l’accento è sempre sulla solitudine, sull’emarginazione. Nei chiaroscuri, Beetlejuice è a sua volta relegato in una dimensione parallela e ha bisogno di essere evocato per tornare in vita. Potrebbe essere l’altra faccia di Edward mani di forbice. In quel caso lo sguardo era più strappalacrime, in questo è più da commedia feroce, è la Famiglia Addams portata all’eccesso, nel tentativo di trasformare la disperazione in speranza. Risplendono il kitsch, il punk, il musical, i trucchi pesanti che si mescolano ai giochi di prestigio e a un interrogativo che non tramonta mai: vivi e morti possono coesistere? Forse.
Dietro a questa domanda, all’apparenza fuori da qualsiasi galassia conosciuta, in realtà si annida la riflessione di un Tim Burton sempre disincantato, che dietro ai suoi fantasmi nasconde persone normali, fragili. Nella lucidità del suo sguardo anche i cellulari ci risucchiano, siamo tutti sotto sacco. Beetlejuice Beetlejuice ragiona sull’inclusione, sull’incontro, sugli adolescenti che si scannano con adulti poco aperti al dialogo. La Generazione Z di Tim Burton è quella che invoca la libertà, ma soprattutto l’ascolto. I brividi si mescolano ai sorrisi, la maledizione è sempre quella: non nominare mai tre volte Beetlejuice o potrebbe palesarsi. Ma è proprio qui che gli antieroi di Burton si manifestano per salvare quello che ormai è il ritratto di un mondo in fiamme.