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Beckett è diretto da Ferdinando Cito Filomarino, prodotto da Luca Guadagnino, interpretato da John David Washington, Boyd Holbrook, Vicky Krieps e Alicia Vikander. Ha aperto ieri 4 agosto il festival di Locarno, ed è targato Netflix, su cui approderà il 13 settembre.
Opera seconda di Cito Filomarino, che aveva convinto con Antonia (2015), segue durante una vacanza in Grecia il turista americano Beckett (John David Washington) e la compagna (Alicia Vikander): dopo un incidente devastante, l’uomo diventa un bersaglio. Tra disordini politici, autorità conniventi e cospirazioni su larga scala, Beckett deve attraversare il paese per raggiungere l’ambasciata statunitense e salvarsi la vita.
Per Giona A. Nazzaro, guida di Locarno, “è un thriller che rielabora in chiave contemporanea e originale la lezione di autori come Sydney Pollack e Alan J. Pakula. Un film d’azione umanista, dal forte impegno civile retto da una interpretazione magistrale di John David Washington”. Da direttore di festival non fa una piega, ma una considerazione critica vorrebbe meno entusiasmo, non tanto su Washington che ha presenza e volontà, ma sull’architettura thriller, l’afflato umanista, sopra tutto, la presa in carico delle turbolenze politiche greche e non solo greche nel canovaccio invero trito del man on the run. Qui il film sbraca, non è all’altezza delle ambizioni che s’è scelto, di più, quelle intenzioni di impegno civile, riflessione politica sembrano del tutto estranee alla poetica, se non all’ideologia, del regista, chiamato a trasformare la sceneggiatura pletoricamente non congeniale scritta a quattro mani con l’esordiente Kevin. A Rice.
Un’occasione sprecata, dal cast – la Krieps, non la Vikander che conferma la sua mediocrità – alla crew - Ryuichi Sakamoto, su tutti –, che ribadiscono la debolezza di un soggetto semplicistico e financo irrispettoso al cospetto dei temi pe(n)santi che affronta. In breve, uno l'impegno se non ce l'ha non se lo può dare. E, aggiungiamo, al di là dell’amicizia e della contiguità servirebbe tracciare un confine tra il cinema di Guadagnino e questo di Cito Filomarino: se la scelta di Sayombhu Mukdeeprom (fotografia) e Walter Fasano (montaggio) ha una palese necessità, e felicità, artistica, la presenza di Blood Orange e Michael Stuhlbarg paiono più – nocivi - segni di appartenenza, che non esigenza, tantomeno surplus, creativa.
Infine, la drammaturgia thriller: tra Il fuggitivo per dinamica e retaggio e, dato il nero Washington, Get Out per immaginario BLM, non funziona. Rimane, sebbene il grandangolo sia indebito, qualche scena ben girata, ma sono ininfluenti, se non nel ricordarci l'occasione persa. Forse non era pronto per tanta alterità, dal cast all'ambientazione ai temi, Cito Filomarino, di certo il passo indietro rispetto ad Antonia è oltremodo sensibile.
Spiace, ma il primo talento - il regista ne ha - dovrebbe essere capire il da farsi. E il non da farsi.