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Come il blues, l’opera di August Wilson mette in versi l’esperienza afro-americana. Come il blues lascia la parola a una minoranza. A quella minoranza appartiene Troy Maxson, eroe ordinario e ciarliero, che monopolizza lo spazio scenico in cerca di riconoscenza sociale e familiare. Alla sua terza regia e coerente con una filmografia aderente a un gruppo sociale, a una coscienza politica, a una storia e a un territorio, Denzel Washington pesca Fences da “The Pittsburgh Cycle”, una raccolta di dieci pièce che risuonano l’urgenza della comunità afroamericana di affermarsi socialmente e di riparare la propria identità culturale.
Netturbino nella Pittsburgh degli anni Cinquanta, Troy Maxson ha una moglie che ama e tradisce, un amico inseparabile che parla alla sua coscienza e due figli che non comprende. Lyons suona il jazz e Troy canta il blues, Cory pratica il football e Troy gioca a baseball. Se le ingiustizie sociali costituiscono il campo di battaglia di Troy, la sua collera insorge costantemente contro se stesso e i propri cari. Spirito indomabile che lotta per non soccombere ai demoni interiori, Troy è incarnato da Denzel Washington, che lo aveva già interpretato nel 2010 a Broadway.
La regia senza eccessi, che muove dal cortile verso la strada e il deposito, disloca lo sguardo del pubblico avvinto da una performance verbale potente. Parole che (ri)compongono il mondo del protagonista, assediato dalla morte come la città di cui porta il nome, e annullano la distanza tra monologo e assolo. Il cortile, spazio scenico che ospita il talento oratorio di Troy e le repliche profetiche del ‘coro’ (Rose, Bono, Gabriel), si svuota progressivamente e si riduce ai soli spettatori, che Denzel Washington fronteggia in camera. Solo, dentro il recinto che si è costruito, Troy ricorre al blues come ultima risorsa per farsi intendere. E la canzone di Troy (“Blue”), ereditata dal padre violento e trasmessa ai propri figli, diventa la chiave di lettura primordiale per avventurarsi nel dramma, il gesto di perdono che guarisce e fa avanzare la vita.
Narratore ed eroe della storia il Troy di Washington è una risacca di fatica che trascina con sé la sua famiglia e ingombra il cortile, convertito in campo sacro di baseball e vestigia di una gloria sportiva passata e frustrata. Ad arginarlo, a riportare i suoi racconti alla dimensione reale, a mediare tra padre e figli, tra personaggio e spettatore, tra finzione e realtà, c’è la Rose di Viola Davis, contrappunto inesorabile alla sua magniloquenza e ruolo capitale della coesione e della trasmissione sociale. Il suo desiderio è conservare l’unione familiare dentro la recinzione del titolo che Troy rovescia in separazione, tema implicito nel titolo.
Chiuso dall’interno, Troy sfida l’esclusione sociale dal sogno americano e Denzel Washington canta la blue note della discriminazione razziale e delle barriere esistenziali. Che qualche volta come nel baseball basta superare per fare homerun.