Ci sono le ombre assertive e scanzonate del primo Nanni Moretti, siccome Ecce Bangla. Si avverte lo stream of consciousness à la Paterson, almeno a dar retta al regista. Ci sono, quantomeno si vedono, le influenze familiari di East Is East e le geometrie di coppia di (500) giorni insieme.

 

C’è, sopra tutto, nitore acuto e calmo furore di Phaim Bhuiyan, che scrive e si dirige in una commedia sentimentale al tempo, e nei modi, delle seconde generazioni. Diciamolo subito, Bangla è un piccolo grande film, in cui la povertà dei mezzi è ricchezza ideale, sprone creativo, libertà d’espressione: se le dimensioni contano, anche quelle produttive, qui Tim Vision e Fandango, di più conta il divario tra promessa e fine, premesse e svolgimento, che il ventiquattrenne italiano di origine bengalese Bhuiyan appiana facilmente e felicemente.

Nella Roma multietnica, e sperabilmente multiculturale, di Torpignattara, il suo alter ego Phaim si destreggia tra famiglia e lavoro (steward in un museo), passando per un gruppo musicale: c’è la realtà italiana, c’è il retaggio familiare, ovvero l’Islam, che prescrive la castità prematrimoniale. La tensione è preesistente, non il punto di rottura: Asia (Carlotta Antonelli) ha nome affine, e futuro prossimo condivisibile? Scisso tra religione e amore, combattuto tra precetto e volontà, Phaim chiede e si chiede, si prova e mette alla prova, con sfrontata leggerezza e irredimibile freschezza: Bangla non è titolo programmatico, ma spia scoperta di un’identità in divenire, dialettica e fusionale insieme.

 

Supportato creativamente e fattivamente da Emanuele Scaringi, Bhuyian fa di necessità produttiva virtù estetica: davanti alla macchina da presa è come se ci vivesse abitualmente, dietro predica semplicità e raccoglie naturalezza, intestando a sé e ad Asia/Carlotta uno sguardo anagraficamente, emotivamente ed empaticamente all’altezza.

 

Il dato autobiografico, quello spicciamente delle seconde generazioni, si diluisce senza grumi ideologici né sovraintenzioni politiche nel voltaggio universale della storia d’amore, nell’indicazione antropologica tipica delle identità multiple e della sintesi auspicabile: si ride, si sorride, e mentre lo fai ti accorgi di un surplus di significato, di uno slittamento di senso, di una sprezzatura gentile, ovvero di un intento comprensivo e originale, pubblico e privato.

Ci si cerca, si si trova, ci si perde, e (ci) si ripete, disseminando conversazioni familiari stranite e confessioni amicali non risolutive, ubriacature indebite e richiesta di consigli allo spacciatore: vorrei ma non posso, o posso?

C’è giusta misura nel racconto, che prende di tutto un po’ senza abbuffarsi, e giusta distanza nella prospettiva, c’è una sceneggiatura – a quattro mani con Vanessa Picciarelli – che non apre vie che non può, produttivamente e drammaturgicamente, portare a termine, ma onora e adorna il boy meets girl, c’è un cast di contorno, Simone Liberati, Milena Mancini e Pietro Sermonti, che fa il suo, e immagini, e immaginario, senza filtro: l’Italia cambia, e perché il cinema non dovrebbe? Un esordio prezioso, Bangla.