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© 2022 Netflix, Inc.
Boy meets girl, un grande classico; ma questa volta non è amore, e nemmeno il calesse di troisiana memoria. Donny Dunn è un aspirante comedian scozzese, sbalzato dalla natia Scozia in una Londra che non fa sconti a nessuno, specialmente a chi aspira al successo. Costretto a sbarcare il lunario in un pub di Camden, Donny incontra Martha, una donna tutt’altro che attraente, sola e visibilmente depressa. Mosso a pietà, le offre una tazza di tè. Quel gesto di gentilezza cambierà per sempre la vita di Donny: Martha, stalker recidiva, lo perseguiterà per i successivi tre anni, inviandogli migliaia di email ed SMS ossessivi quanto grottescamente sgrammaticati, fino ad aspettarlo sotto casa e a farsi trovare nel pubblico ai suoi spettacoli, per di più interagendo con lui. Una persecuzione che non lascia scampo a Donny, e – cosa ancor più paradossale – di cui Donny sembra quasi non poter fare a meno…
È prematuro affermare che Baby Reindeer sia la serie dell’anno; lo è certamente del momento, a giudicare dal passaparola che, sin dalle prime settimane di streaming, le ha assicurato un successo di audience e critica sempre crescente. Non erano così tanti, in precedenza, a conoscere l’omonimo e pluripremiato one man show teatrale di Richard Gadd, che lo ha trasposto su piccolo schermo per Netflix ritagliandosi il doppio ruolo di autore e protagonista (la regia è affidata alle sapienti mani delle ottime Weronika Tofilska e Josephine Bornebusch). Spettacolo, oltretutto, tratto da un episodio di stalking realmente accaduto all’attore scozzese, opportunamente e dichiaratamente romanzato.
Le premesse sono quantomai ingannevoli: l’iniziale registro black comedy lascia rapidamente il posto a uno storytelling angosciato e impietoso, straziante e per niente mainstream. Lo stalking è il campo tematico dichiarato sin da subito, argomento efficace per calamitare da subito l’attenzione dello spettatore: ma l’inquietante onnipresenza di Martha Scott nella vita del Richard Gadd attore/attante/personaggio, da motore della trama, passa incredibilmente in secondo piano dopo tre puntate, per farsi mezzo di un secondo fine: l’autoriflessione. Perché qualcosa non torna, in ciò che Donny racconta inizialmente, e c’è bisogno di tornare sui propri passi per spiegare la sua passività di fronte allo stalking, la sua reticenza a denunciare Martha e chiudere definitivamente il caso. Al centro di tutto c’è proprio lui, Richard/Donny, che inchioda il proprio pubblico alla sedia (sia tramite fiction che nella fiction stessa, con un memorabile monologo a teatro) sciorinandogli i traumi che lo hanno portato a subire passivamente una situazione simile.
Si resta inizialmente colpiti da un personaggio open minded come Donny, in apparenza talmente risolto da frequentare ragazze transessuali e non essere minimamente turbato dall’aspetto fisico di Martha come dalla sua evidente mitomania; anzi, pur non assecondando i suoi sentimenti, è perfettamente in grado di valutare Martha per ciò che sa dare, in termini di attenzioni. In realtà, nulla di quanto vediamo scaturisce da Donny in maniera genuina, ma è indotto da un passato di abusi e da un susseguente bisogno di avere conferme di qualunque tipo, indipendentemente da chi ha di fronte. E che porta il ragazzo a sperimentare sulla sua pelle esperienze sessuali di qualunque tipo, in maniera disordinata, scomposta, disperata.
L’orrore che si insinua nella narrazione è quello di trovarsi non più di fronte a una storia d’amore (o di ricerca dell’amore), ma di un’identità perduta perché stravolta, definitivamente cambiata, con cui dover imparare a convivere. E a parlare, ancora una volta, è il Richard Gadd dichiaratamente bisessuale, che mette in gioco i suoi drammatici esordi nel mondo della stand-up comedy, un mondo spietato in cui strappare una risata al pubblico è impresa quanto mai titanica, e spesso frutto di circostanze.
L’origine del male è tutta qui, nella disillusione e nell’abuso sessuale che origina il trauma. Ed è l’acme di un percorso di autonarrazione che, forse, è la causa principale del successo della serie, anche se i contenuti possono essere distanti dal pubblico per registro e contenuti: ormai la narrazione contemporanea, complice l’avvento dei social e la possibilità di creare il proprio autonomo storytelling, è rigorosamente declinata in prima persona. Condividere i propri contenuti, o parlare apparentemente di un evento collettivo per poi convergere il discorso su se stessi e sul proprio fisiologico bisogno di attenzioni (anche virtuali), non è forse il motore di gran parte dei post su Facebook, X e Instagram?
Gadd si muove nello stesso identico modo, come è giusto che sia per una produzione dei nostri tempi, e ottiene dal suo pubblico eterogeneo e impreparato alle sue esperienze estreme l’unica cosa che può ottenere: empatia, a livello universale. Si aggiunga a tutto questo la breve durata delle puntate, mezz’ora ciascuna, il formato attualmente migliore e più fruibile nello sconfinato mare magnum delle produzioni televisive.
Analizzata a posteriori (ma farlo prima, a tavolino, è tutt’altro che facile…), l’operazione Baby Reindeer è realmente vincente, oltre che di altissima qualità tecnica. Perché cerca empatia ma non la elemosina, sa convincere senza pietismi, non fa del suo protagonista una vittima del mondo ma parte stessa di questo mondo: si è a turno vittime e carnefici, come insegna l’esperienza con Martha, culminante in un memorabile finale in cui Donny, dopo essere tornato volontariamente a casa del vero responsabile di tutti i suoi problemi, prende simbolicamente il posto di Martha, e riceve quell’empatia mista a pietà che aveva generosamente elargito all’inizio della storia. Siamo soli, dice Gadd. E intercambiabili, nel dolore e nelle esperienze che ci hanno traumatizzato individualmente per poi finire da soli al bancone di un pub. Molto triste. E molto vero.