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Il cinema dell’orrore, oggi, è donna?
Il marito di Amelia è morto da qualche anno, ma lei è riuscita a crescere il figlio Samuel pur tra grandi difficoltà economiche e psicologiche: l’iperattività del bambino poi scivola lentamente verso qualcos’altro quando nella loro casa arriva un libro grosso, nero e minaccioso, “Mr. Babadook”, con favole fin troppo spaventose e quindi messe da parte dopo la prima lettura. Il guaio però è fatto: l’uomo nero sta arrivando, e intrappolerà madre e figlio nella loro stessa casa.
Già la primissima scena, perturbante e bellissima, sottilmente baviana (il close-up della brava Essie Davis al centro dell’inquadratura ricorda Daria Nicolodi nell’effettistico Schock), mette in chiaro la conoscenza profonda del mezzo da parte della regista e la straordinaria messa a fuoco psicologica. Ma anche la ferma convinzione di Jennifer Kent, regista, che l’horror smuove il senso profondo di instabilità che c’è in ognuno di noi, risvegliando fantasmi interiori che cerchiamo sempre di mettere a tacere.
E tutto questo è solo l’inizio: messi al bando tutti i cliché sulle famiglie perseguitate dagli spiriti, il film assume un andamento cinereo e toni espressionistici, e la Kent adotta uno stile carpenteriano quando conduce sottopelle nella sua storia – tutta chiusa in una casa – l’indagine di un carattere femminile veramente forte, come pochi negli ultimi anni (decenni?) di storia.
Allora psicosi mentali, linee e geometrie, bianchi e neri, minimalismi di messa in scena, montaggio frenetico, si fondono sommessamente fino a formare un mosaico che è prima di tutto un piacere per gli occhi; e che alla fine, con un colpo di coda mai visto, getta una luce ancora diversa sulla storia, per svelare la natura dell’orrore al cinema come favola morale.
Quindi, il cinema dell’orrore, oggi, è donna? Se pensiamo al mai distribuito in Italia Goodnight Mommy di Veronika Franz, ed in successione a questo Babadook di Jennifer Kent, potremmo affermarlo con relativa sicurezza. E iniziare a chiederci perché.