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Avatar - La via dell'acqua
"La via dell'acqua non ha inizio e non ha fine. Il mare dà, il mare toglie".
Che cosa era rimasto, ormai 13 anni fa, dopo il primo Avatar? Forse la sensazione di un domani che si sarebbe compiuto dopo un battito di ciglia. E invece quel domani, oggi, è arrivato come se l'universo/metaverso di Pandora fosse stato accantonato dalla nostra memoria, dal nostro immaginario.
La rivoluzione tecnologica che Cameron presentò al mondo nel 2009 (e che il mondo ripagò con 2,7 miliardi di dollari, ora 2,9 con le varie re-release del film: il maggior incasso della storia) sembrava l'anticamera di un presente prossimo che ci avrebbe garantito delle visioni-immersioni un tempo impensabili. Lo stesso Cameron, in quel periodo, prometteva che il secondo Avatar saremmo stati in grado di vederlo sempre in 3D ma senza l'ausilio degli occhialetti.
Quella promessa non è stata mantenuta, ma soprattutto quella tecnologia (eccezion fatta forse per Gravity di Cuaron, 2013) non ha più avuto epigoni degni di considerazione, quasi scomparendo via via come una delle tante mode scoppiate e poi defunte nel giro di un attimo.
Il ritorno su Pandora però - rimandato tante di quelle volte che ormai non si contavano più - ci riapre gli occhi (con gli occhialini, sì) sulla possibilità di riconsiderare l'esperienza cinematografica come qualcosa di altrimenti non replicabile.
Rivedere Avatar su Disney+ e scegliere adesso di inabissarsi per oltre tre ore in sala con La via dell'acqua (192’) amplifica uno scarto che conoscevamo, certo, ma che mai come in questo caso diviene gigantesco. L'unico modo per "vedere" (“I see you”...), dunque, è quello antistorico, prepandemico, prepiattaforma: nel buio della sala.
Una sorta di ritorno nel liquido amniotico dove poter ritrovare sì topoi narrativi straabusati (nel primo l’usurpatore che finisce per innamorarsi della “principessa” e del mondo che difende, ora – una decina d’anni dopo quegli eventi – con Jake Sully che di fatto non è più un Avatar ma un Na’vi vero e proprio, padre di famiglia e patriarca di quel popolo, chiamato nuovamente a difendere la sua gente da una nuova, antica minaccia) e, allo stesso tempo, la meraviglia di un’esperienza non rinvenibile altrove.
Ancora una volta Cameron sembra rimanipolare suggestioni tanto del suo cinema quanto del cinema tutto: non si può ovviamente non ripensare a Titanic verso la fine del terzo, conclusivo atto de La via dell’acqua, come non può non tornare alla mente il colonnello Kurtz di Apocalypse Now quando dal mare infuocato emerge la testa di Jake o, poco dopo, il Mel Gibson di Braveheart: un’esperienza che “non ha inizio e non ha fine”, liquida, che lascia a bocca aperta quando i 48 fotogrammi al secondo dell’high frame rate si sposano con la profondità stereoscopica e la performance capture nel mistero di abissi popolati da creature con cui i protagonisti impareranno a stabilire nuovi legami dello spirito, vedi ad esempio i giganteschi tunkul, centrali tanto nello sviluppo della storia quanto per tornare a ragionare su temi ecologisti sempre molto cari al regista canadese.
“I Sully restano uniti”: nella prima ora del film ritroviamo Jake e Neytiri (Sam Worthington e Zoe Saldana) nel loro habitat naturale, la foresta di Pandora, alle prese con la “semplicità della felicità”, data dalla nascita dei loro 3 figli (i maschi Neteyam e Lo'ak, la femmina Tuk) e dall’aver adottato Kiri (Sigourney Weaver).
Ma è una felicità che ben presto sarà minacciata dal ritorno degli umani, capeggiati ancora una volta dal colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang), clonato insieme ad altri suoi commilitoni nel corpo di un Na’vi.
I Sully cercano uturu, riparo, in un altro dei tanti “mondi” ospitati da Pandora, un arcipelago di innumerevoli isole popolate dai Metkayina, convincono il leader Tonowari e sua moglie Ronal (Cliff Curtis e Kate Winslet) ad ospitarli lì.
Ed è in questo secondo atto che La via dell’acqua trova la sua più grande ragione d’essere: superata la prima impressione di un’Oceania con gli uccelli, la magniloquenza visiva esplode insieme alla meraviglia e alle difficoltà che soprattutto i giovani membri della famiglia Sully incontreranno tanto per farsi accettare dagli altri coetanei quanto per ambientarsi in questa nuova realtà. In attesa del prevedibile, terzo e conclusivo atto, in cui la minaccia della “gente dal cielo” arriverà fino a quei lidi.
Visione ed esperienza si fanno tutt’uno, la perfezione “sintetica” sorpassa nuovamente la nostra percezione sulle “cose”, la realtà lascia spazio ad altro. In 3 ore e poco più ci sentiamo immersi in qualcosa di unico, irripetibile.
Ma dopo?
È forse questo il limite che la supremazia tecnologica, esperienziale, di un kolossal simile non riesce ancora una volta a superare: il dopo-visione, l’impossibilità di far convergere le mirabilia di un universo sensazionale alla profondità di un’emozione in grado di sedimentarsi nel nostro immaginario. Nel nostro Io. La sensazione di ritrovarsi in un meccanismo che, contrariamente alla via dell’acqua, ha un inizio e ha una fine. Circoscritti dal tempo della visione.