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Lo scenario distopico è ormai noto: catastrofi nucleari, Terra sull’orlo della desertificazione, umanità a rischio sopravvivenza barricata in tetre città-ghetto e, dulcis in fundo, schiere di androidi creati per supplire alle necessità della popolazione residua.
In questo futuro prossimo venturo, Jacq Vaucan è un agente assicurativo al soldo della Robotics Corporation, incaricato di vigilare sull’eventuale presenza di robot difettosi. Il precario equilibrio esistenziale di Vaucan, nondimeno, comincerà a vacillare quando tutta una serie di misteriosi incidenti sembrerà suggerire l’esistenza di un complotto contro l’umanità ordito da automi, forse dotatisi, inspiegabilmente, di un barlume di coscienza.
Cupo e pessimista sul destino della razza umana, il film dello spagnolo Gabe Ibáñez parte dalla teoria della singolarità tecnologica - elaborata negli anni ’50, per cui il progresso tecnologico umano accelera oltre la stessa capacità di previsione, dando vita a un’intelligenza superiore a quella umana -, per sfociare in un a tratti affascinante ma non sempre lucidissimo métissage cinematografico e letterario che ruba un po’ a tutti senza appartenere a nessun genere, attraversando sentieri narrativi monopolizzati dagli statunitensi ma ripensati (troppo?) da europeo.
Parte come un noir – Banderas, nel ruolo del protagonista, è marmoreo come al suo solito e sembra un Rick Deckard da B-movie -, tange la sci-fi d’annata a metà fra l’umanesimo di Asimov e il delirio metafisico di Philip Dick, per terminare incredibilmente come un western con un lieto(?) fine solo apparentemente catartico ma in realtà colmo di inquietudini.
Bellissima la fotografia, a cura di Alejandro Martínez, desaturata e livida al pari del mondo di morte che descrive. Visionaria e bizzarra la colonna sonora che mescola sonorità ambient e barocco di Handel. Quasi un cammeo infine la presenza di Melanie Griffith, ex-moglie di Banderas, nel ruolo curioso di una manipolatrice di androidi.