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Austerlitz
Nacht und Nebel. Notte e nebbia. L'operazione di annientamento attraverso l'internamento nei campi di concentramento diede anche il titolo al memorabile documentario che Alain Resnais realizzò nel 1956. Che cosa è rimasto da raccontare, anche cinematograficamente parlando, 60 anni dopo quell'incredibile sguardo sull'Olocausto?
Sergei Loznitsa è un cineasta che proprio intorno alla struttura dello sguardo cinematografico continua a regalare opere di straordinaria potenza: a parte le parentesi di "finzione" con My Joy e In the Fog (oltre all'episodio Reflexions per il collettivo I ponti di Sarajevo), con Maidan (2014) e The Event (2015) filmò rispettivamente la recente rivoluzione ucraina e ci riportò ai giorni del golpe russo del 1991. Questa volta, partendo probabilmente da altre premesse (il titolo, Austerlitz, si rifà volutamente all'omonimo di W.G. Sebald, ed. Adelphi), si è ritrovato ad osservare come lo sguardo del presente finisca per rimanere indifferente di fronte alle tragedie della Storia.
AusterlitzSì, perché se è vero che il professore di architettura che dava il cognome al titolo dell'opera di Sebald studiava quegli edifici che, "soprattutto nell’Ottocento, tendevano ad assumere forme involontariamente visionarie, sovraccarichi com’erano di significati simbolici", Loznitsa finisce invece per immortalare - attraverso l'utilizzo della camera fissa - lo svuotamento di senso che, ai giorni nostri, caratterizza un luogo come il campo di concentramento. Che nel corso dei decenni si è trasformato da custode di indicibili orrori a meta turistica di massa: ARBEIT MACHT FREI, allora, diventa l'equivalente di un BENVENUTI A DISNEYLAND, "cartello" di fronte al quale scattarsi foto ricordo in mezzo al continuo via vai di visitatori, dove il rumore del passaggio, il chiacchiericcio della quotidianità, inquinano il silenzio della memoria.
Dapprima quasi appostata (timidamente) dietro al fogliame di un albero, la macchina da presa di Loznitsa non interferisce in nessun modo con la giornata tipo di questi luoghi "della memoria", come a Sachsenhausen (che su TripAdvisor ha 4 stelle e mezza...), ma ne porta in superficie la tragica contraddizione: famiglie con bimbi (o cani) nel passeggino, adolescenti con magliette a dir poco antitetiche ("Cool Story Bro!"...), adulti con magliette profetiche ("Jurassic Park"...), smartphone e dispositivi per l'audioguida che si confondono alla vista, guide che con disinvoltura passano dal racconto dettagliato della morte sotto le "docce" o nei forni crematori al "se ci sbrighiamo abbiamo più tempo per mangiare", gli orrori della storia diventano un qualcosa da immortalare per poter dire "Io c'ero! (per fortuna dopo...)", condividendone magari sui vari social anche il lato "sdrammatizzante" (il tizio che si fa fotografare assumendo l'ipotetica posa di chi, all'epoca, veniva torturato dai nazisti).
"L'idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì. Sentivo, come dire, che la mia presenza non fosse etica in posti simili", spiega Loznitsa, che avrebbe voluto capire attraverso il "volto delle persone come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d'animo. Ma non nascondo di esserne rimasto abbastanza perplesso".
Il regista Sergei LoznitsaL'immagine etica e quella superflua: è anche, forse soprattutto, un film che vuole ragionare su questo aspetto, Austerlitz: quel che è certo, è che Loznitsa ci ricorda quanto il nostro rapportarci alla Storia, il modo in cui assimiliamo, "capiamo", sia ormai viziato e massivamente distante da qualsiasi tentativo di riflessione. E, per farlo, lascia parlare le inquadrature fisse, che rimangono libere nello spazio incidentalmente occupato dall'"uomo".
Un film importantissimo, tra i più lucidi e al tempo stesso devastanti sulla tragedia della Shoah.