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Opera seconda, dopo The Challenge premiato a Locarno nel 2016, del videoartista e regista italiano Yuri Ancarani, Atlantide è un film che merita. L’isola che non c’è è Venezia, intesa quale laguna, gli eroi sono i ragazzini che la percorrono con i loro velocissimi barchini e la popolano come specie a sé stante, umana quanto psichedelica, competitiva tanto affratellata, anzi, abbrancata.
Osservazione di quattro anni, sceneggiatura nei fatti, un’opera totale, regia, fotografia e montaggio in prima persona, che tallonando il convinto, stolido e disgraziato Daniele ricorda un Harmony Korine brachicardico, un Luca Guadagnino meno elegiaco, una Velocità massima (Daniele Vicari, 2002) non solo sull’acqua, ma liquida.
La fotografia è di estatica bellezza, il pantone di tramonti, albe e notti confligge con le luci led, neon e fluo dei barchini, rischiarando la possibilità di un arcipelago che non c’è: via dalla pazza folla, via dai turisti – la nave della MSC crociere è una balena smodata e immonda – e dentro la vita, di questi centauri marini, cavalieri con dame e prima ancora destrieri, leon(cin)i al sole.
Non c’è epica, ma percezione; non c’è adrenalina, ma destino; non c’è storia, ma racconto: è l’interazione uomo-macchina, officiata da techno e trap, lo spirito, e il battito, del tempo giovane, del rito di passaggio adolescenziale, e il “chi ce l’ha più veloce” è iniziazione ferale.
Nel finale Ancarani ruota di 90° la camera in senso antiorario, facendo dell’orizzontale per definizione, il mare, una verticalità allucinata, lustrale e terminale insieme, dunque, uns egno di croce tra realtà e percezione.
È lo sguardo degli adolescenti che si sottrae all’osservazione, il loro tempo che si specchia su quel crinale marino verticale, è morte a Venezia e vita, viva Ancarani, che fotografa un desiderio in assenza e un surplace a velocità massima. E calma piatta.
Tra l’alpha (maschio) e l’omega, gli Orizzonti di Venezia 78 con Atlantide accolgono un regista che non si farà, perché è già ben fatto, e una perduta isola subcontinentale, sommersa perché de facto invisibile ai nostri occhi. Viene in mente, giacché Atlantide è davvero carta e territorio insieme, il Michel Houellebecq di quelle pagine: “L’arte dovrebbe somigliare a un’attività innocente e gioiosa, quasi animale; forse l’arte sarebbe diventata così una volta che l’uomo avesse superato la questione della morte”.