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Il rapporto non facile con Gauguin (Oscar Isaac), la custodia affettuosa del fratello Theo (Rupert Friend), sopra tutto lui: Vincent Van Gogh, un assai somigliante Willem Dafoe.
22 anni dopo Basquiat – e otto dall’ultima regia, Miral – l’artista Julian Schnabel porta sul grande schermo un altro celeberrimo collega, forse il più celebre: l’inquieto pittore olandese è inquadrato nell’ultimo periodo della sua breve vita – se ne è andato nel 1890 per un colpo di pistola – tra iperproduttività, “sana follia” e zero vendite delle sue tele.
Nelle intenzioni At Eternity’s Gate, da noi Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità, non consegna uno sguardo filologico, ovvero biografico, sull’artista, bensì – siamo a Venezia, concediamocelo – una sorta di Doppelganger, una congruenza di Van Gogh e Schnabel, che proietta la propria immagine e la propria arte su quella di Vincent. L’immagine, in effetti, è centrale: libera, mossa, sfocata – parzialmente sfocata nella parte bassa, come a rendere un difetto visivo, ma senza coerenza – ed erratica, declina in altro modo lo specifico, l’idiosincratico, l’unicissimo messo su tela da Van Gogh, come volesse accostare a quella un’altra arte, uguale e contraria.
Tanta natura, spighe e rami di fico, il vento, la luce, il sole, e fin qui va anche bene, ma questa anarchia strutturata è contrastata, fraintesa se non vilipesa, e quasi annullata dai dialoghi: dagli scambi con Gauguin alla disamina cristica col prete (Mads Mikkelsen), dalla tenzone verbale col Dottor Gachet (Mathieu Amalric) agli incontri con Theo, è una lunga teoria di didascalie, spiegoni sull’arte, l’artista e l’infinito mondo tra follia, Dio e senso esistenziale.
Ed è abbastanza nocivo, come se Schnabel, e chi con lui (co-sceneggia Jean-Claude Carriere), non credesse fino in fondo, e comunque non reputasse sufficiente, evocarne lo spirito (santo…), per indulgere viceversa in una messa cantata, perfino pedante.
Non chiedere al poeta, e non avremmo chiesto, ma di fronte a questa lunga e irrichiesta parafrasi non possiamo non esprimere dubbi, riserve, che finiscono per intaccare lo stesso Dafoe: davvero una copia conforme, ma assai meno calzante nella tempra, nel furore, nell’arte.
Un po’ addomesticato, pastorizzato, perfino rassegnato, come questo At Eternity’s Gate (il titolo viene da un dipinto di Vincent): non gli mancano i colori, ma la forza, la follia, l’urgenza di farne arte. In Concorso a Venezia 75.