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Assassinio a Venezia
Kenneth Branagh e Agatha Christie, atto terzo.
Dopo quelli sull’Orient Express e sul Nilo, ecco l’Assassinio a Venezia. In realtà nel semisconosciuto Poirot e la strage degli innocenti (Halloween’s Party il titolo originale del libro) della celebre giallista britannica non c’è traccia della Laguna, e il Dopoguerra italiano (1947 per la precisione) di Branagh cancella gli anni Sessanta della scrittrice, senza contare che nel romanzo la povera Joyce Reynolds era ancora in vita, qui invece spira prima dei titoli di testa.
Insomma, senza snocciolare tutte le ristrutturazioni del film, le premesse sono solari: non trasposizione ma appropriazione (indebita, diciamolo subito) trapiantata in un altro spazio-tempo puramente cinematografico. Resiste, comunque, l’unità di tempo, ovvero la notte della festa di Ognissanti; l’impalcatura, va da sé, della detective story, la coralità e poco altro se non l’inclinazione divocentrica della trama (anche questa un’ovvietà).
Lo scenario, per di più, è di sicura presa sulle masse (vera ambizione di questo all star movie: sbancare il botteghino pescando nel mucchio con immaginario, autori e attori stranoti): una Venezia dark da cartolina (sin dai totali dei titoli di testa in Piazza San Marco) spazzata da un temporale. Mentre, però, aleggia il dubbio che più che per evocatività narrativa la Laguna ci sia per convenienza produttiva, Hercules Poirot, mosca e mustacchio sempre inappuntabili, si sveglia di soprassalto nel suo letto.
Il presagio è chiaro: nessuna possibilità di godersi la vecchiaia sferruzzando rose in giardino, il crimine non va in pensione. Adriane Oliver (Tina Frey), infatti, irrompe nella sua dimora inavvicinabile per i mille questuanti quotidiani con il beneplacito del maggiordomo Vitale (Riccardo Scamarcio, a proposito di convenienza produttiva).
Il detective in pensione, così, è scaraventato, obtorto collo, in un palazzo vagamente gotico per assistere a una seduta spirtitica convocata per comunicare con una giovane defunta e soprattutto far accettare al detective l’esistenza del paranormale.
A guidare l’adunanza arriva in gondola e maschera Joyce Reynold (Michelle Yeow). La padrona di casa Rowena Drake (una lacrimosa Kelly Reilly) vuole riconnettersi con lo spirito della giovane figlia, annegata dopo una delusione d’amore, o almeno così pare. Il raziocinante, chiarificatore Poirot, però, impiega tre indizi e qualche minuto, per smontare l’inganno, smascherando anche due aiutanti della presunta sensitiva.
Resta, però, da far luce sulla morte della candida ragazza. Neanche il tempo di organizzare le indagini e la sensitiva finisce conficcata nella mano di un’enorme statua. E non sarà l’unica morte che scuoterà la mente di Poirot e il castello perché Branagh, in versione cerchiobottista, balla tra il mistery, il crime e soprattutto, inaspettato o forse no, l’
h orror calcando la mano su premonizioni e morte oltre la misura e la Ragione.Si rincorrono, così, fulminee analessi (rigorosamente) in bianco e nero che vorrebbero essere inquietanti e a volte sono solo illustrative, muri sonori, oggetti spettrali, primi piani in chiaroscuro (la fotografia è del fido Zambarloukos), ambiguità di gesti, intenzioni e motivazioni.
Il peso e l’impronta autoriale, di conseguenza, rimane congelata e abbozzata forse solo a livello espressivo, comunque mai narrativo: tornano i grandangoli asimettrici e pendenti su Venezia (ce n’è veramente bisogno per una città che sta affogando nel turismo?), sui volti, su dettagli e oggetti inquietanti che punteggiano il palazzo.
Ma i brividi corrono solo a sprazzi, la climax logorroica annacqua, spegne il fondo misterico e misterioso della storia, perché la sceneggiatura (di Green, altro pretoriano della trilogia) in realtà rimane aggrappata ai precetti del genere e all’unità di luogo: il Palazzo dove finiscono rinchiusi Poirot, il maggiordomo, Adriane Oliver, la proprietaria che piange la figlia e la domestica, il medico di famiglia e il suo pargolo genietto che legge Poe, gli aiutanti, fratello e sorella della sensitiva Joyce.
Il fulcro, infatti, come detto al di là delle intrusioni indigeste dell’horror, è la più canonica, statica, vieppiù verbosa, sempre divistica detective story: Branagh è in disordine regista, protagonista, co-coprduttore (con Ridley Scott), restitutore dell’ordine, cuore e ragione di ogni scena.
E c’è talmente tanta enfasi sulla sua preminenza che spunta presto il sospetto che la trilogia di Christie, Venezia, la parata di divi e dive, serva al cineasta e drammaturgo per dilatare in costume il suo lessico famigliare. In fondo la Laguna ostile, spazzata dalla burrasca, l’orfanezza materna del piccolo Jude Hill, l’instabilità del padre, il dottor Leslie occhieggiano in parafrasi e in costume alla Belfast (da Oscar) del 1969 dilaniata dalla guerra civile.
Gli attori che incarnano padre e figlio, non a caso, sono gli stessi nei due film: il prodigioso Leopold Ferrier e l’atrabiliare Jamie Dorman, così come il sottotesto verso cui Branagh fa virare a forza tutta la traiettoria dell’Assassinio: un’infanzia difficile e sofferta con una famiglia sgangherata, vissuta in un contesto attraversato dagli strascichi della guerra, ma ‘risarcita’ da una passione divorante – il cinema nell’autofiction, Edgar Alla Poe qui – che consente di sopravvivere e sperare in un domani migliore.