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Una scena del film
Sembra che la produzione cinematografica messicana viaggi a punte di una ventina di lungometraggi all'anno (18 nel 2004). Asì può quindi già considerarsi un miracolo produttivo. Budget irrisorio, ambientazione ristretta al campo alle diagonali e alle distanze di un monolocale, attori giovanissimi, il film di Jesus-Mario Lozano parte dal presupposto che si possa fare del cinema seguendo regole ferree preventive. Basta imporsi il dogma portatile della durata precisa di ogni sequenza, trentadue secondi, proprio come dice il protagonista Ivan: "abbiamo solo trentadue secondi per vedere qualcosa prima di rivolgere lo sguardo altrove". E' naturale per Ivan, come per Lozano, che lo spettatore è distratto, che la vista fugge e la concentrazione involontariamente passa altrove. Così i frammenti sospesi di Asì, diventano messaggi subliminali sulla vita dell'adolescente messicano che frequenta un amico cieco, una coppietta di attori teatrali di strada, cura le due tartarugone che stanno sul lavello, mangia junk food davanti alla televisione più dozzinale che pubblicizza creme anticellulite. Ogni 32 secondi, tre secondi di nero. Qualche breve digressione che sfora il limite autoimposto perché la voce over del protagonista deve spiegare i suoi stati d'animo possibilmente in esterni, Asì dura effettivamente un'ora e ventuno, ma sembrano, per uno strano effetto da loop da discoteca, il doppio. Meccanico, sistematico, deciso a tavolino, il film di Lozano è girato quasi per intero in una stanzetta che chissà, magari è di trentadue metri quadrati pure quella. Water, comodino, letto, sedie, mobiletti, carta igienica, quasi una rivista povera dell'arredamento contemporaneo messicano, più la trascurabile dilatazione dell'attimo che consente di cogliere la vacua identità del protagonista. Terra di mezzo dell'adolescenza fatta di curiosità, innamoramenti, esperienze nuove, questi i temi in ballo, rilanciati continuamente troncando poi ogni volta l'ambizione di comprenderli. Forse non ce n'è bisogno, basta sapere che il disagio esiste e che per ora la soluzione non si trova fra quelle quattro mura e in quei trentadue secondi di concentrazione spettatoriale e umana in genere. Fotograficamente grezzo, ambizioso nello svolgimento, ma probabilmente troppo schiavo dell'ammirazione per l'idea che a tutto soggiace.