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Arrivederci Berlinguer!
Furono quasi quaranta i registi che firmarono L’addio a Enrico Berlinguer, che testimoniava l’imponente funerale del segretario comunista, morto “sul lavoro” a Padova, l’11 giugno 1984. Da allora sono passati quarant’anni, la propaganda non è più quella di una volta, la maggior parte di quei registi non c’è più e Berlinguer è l’ultima icona della sinistra (“non è la Madonna” ironizzava Eugenio Scalfari): l’insostituibile baluardo del pantheon, il totem a cui guardano anche i più giovani (la generazione talmente a disagio nel presente da provare nostalgia per epoche mai vissute) e addirittura uno scalpo che i neofascisti vorrebbero saccheggiare (l’appropriazione del santino come massima azione predatoria: no, non c’entra niente l’eredità del capo che andò a onorare il feretro del nemico).
Tutto ciò per dire che, sì, quella di Berlinguer, la cui tragica fine ha forse contribuito a monumentalizzare nell’immaginario, è una presenza tuttora vivissima, frequentemente evocata, sempre rimpianta. E così Arrivederci Berlinguer! fa un passo in avanti rispetto all’instant doc L’addio a Enrico Berlinguer: le immagini sono le stesse, una selezione proveniente dall’AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, a cambiare è il metodo. Non più il compianto del compagno scomparso troppo presto e del leader di un popolo da consolare, ma la celebrazione di una certa idea d’intendere la politica, di una figura che ha segnato un’epoca, di un mondo perduto da guardare con nostalgia.
L’operazione, opera dei bolognesi Michele Mellara e Alessandro Rossi, mette al centro le voci dei militanti che piangono “il grande amico”, le lacrime dei vecchi partigiani e dei bambini smarriti, i pensieri anche eccentrici di una comunità colpita al cuore (“Era anche un artista nel suo campo e l’artista è obliquo al quotidiano. Ha capito?”), ma sceglie di restituire la vita perduta al corpo del capo. È un modo per trasformare la liturgia dell’addio nella riappropriazione della lezione, alternando le immagini del funerale a quelle di Berlinguer in vita (girate tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, perlopiù in pellicola, realizzate soprattutto durante convegni e appuntamenti pubblici: è il Berlinguer pubblico, ufficiale, istituzionale).
E così le parole degli “orfani” del segretario si emancipano dalla retorica e dalla propaganda per ritrovare consistenza emotiva e forza politica e rievocare quanto fosse viva, dialettica, intensa la relazione tra la comunità e il suo massimo rappresentante. Nessun commento, nessuna spiegazione, nessuna concessione didascalica in questa specie di “Berlinguer ti vogliamo bene”: dall’esterno arriva solo la colonna sonora di Massimo Zamboni, il chitarrista dei CCCP – Fedeli alla Linea, che entra nelle viscere di un materiale commovente che non rimpiange il passato ma guarda al futuro. Arrivederci, appunto: l’addio, in fondo, non è una possibilità.