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Arnold Schwarzenegger. Arnold © 2023 Netflix, Inc.
Tre puntate dopo lo sappiamo, tutta la storia di Arnold Schwarzenegger nasce da un sogno d’infanzia.
Nel suo villaggio austriaco, Arnold è affascinato dall’America che scopre al cinema e sui libri di scuola. Sulle foto illustrative tutto è grande: grandi vetture, grandi città, grandi case con grandi frigoriferi. Con slancio nietzschiano, decide di incarnare letteralmente il sogno americano e ‘diventare grande’ anche lui. Colosso prometeico, vuole essere il migliore dei culturisti, il più carismatico degli attori e il più americano degli austriaci. Il bodybuilding diventa così un progetto pragmatico, una maniera di adattare il suo corpo alla dimensione del suo sogno. Cos’è in fondo l’american dream se non il desiderio di generare se stessi, di essere il frutto della propria volontà?
Docu-serie in onda su Netflix, Arnold è centrata sui grandi capitoli dell’epopea Schwarzenegger: il culturismo, il cinema e la politica. Dentro una Jacuzzi e di fronte alle montagne, l’attore assume al cento per cento il suo status di icona e confessa successi e rimorsi con un sigaro cubano in bocca. L’ultimo uomo (e il primo cyborg) si accomoda nella sua vasta tenuta di Sun Valley (Idaho) e ripercorre le sue stazioni esistenziali (e professionali). Inarrestabile nei suoi obiettivi (culturista, star di Hollywood, governatore della California), questo Terminator dell’esistenza li mira e li calcola come una macchina.
Ma la prospettiva analitica della serie non tradisce mai lo stupore infantile provato la prima volta che lo abbiamo visto al cinema, la prima volta che abbiamo cercato di comprendere perché il suo corpo ci riportasse alla sorgente elementare e primitiva del cinema. C’era qualcosa di aberrante e profondamente esotico nella sua presenza che ha dato immediatamente origine a un tipo di narrazione. Sullo schermo è un mostro, un corpo estraneo, nudo come un neonato. È una forma letteralmente nuova che nasce davanti ai nostri occhi, uno spettacolo affascinante e terrificante insieme. E il motivo della nascita è una costante nei film di Schwarzenegger. Bisogna farlo nascere eternamente per giustificare quel corpo inaudito, farne un’epifania che ogni volta viene ad annunciarci qualcosa, a prefigurare il futuro dell’uomo. Nell’incipit di Terminator è il punto di incontro tra il passato e il futuro. È la statuaria greca e l’elettricità di Frankenstein, è l’uomo che diventa macchina e lo spettacolo vertiginoso della meccanica umana. Con lui guardiamo l’essenza stessa del cinema: l’apparizione di un corpo che ci assomiglia e ci supera.
Schwarzenegger è un vero e proprio esercizio di prestidigitazione, è un prodigio o un trucco di magia. Last Action Hero lo dice splendidamente, il biglietto che nel film permette al bambino di unirsi al suo eroe proviene da Houdini in persona. Mister Universo (enne volte) e dio del bodybuilding, intriga Hollywood, che non sa esattamente cosa fare con lui. Eppure la disciplina che porta l’anatomia in superficie è legata a filo doppio al cinema delle origini. Hollywood eredita l’intera tradizione americana del vaudeville e dell’esibizione del corpo e Thomas Edison immortala col suo kinetoscopio, già nel 1894, le pose di Eugen Sandow, il culturista che inventò il termine “bodybuilding”. Ma possiamo spingerci più indietro fino alle ricerche di Marey e di Demenÿ, che hanno “generato” il cinema rispondendo al desiderio di comprendere e di migliorare la macchina umana e il funzionamento dei suoi muscoli. Un secolo, uno Steve Reeves e un barbaro dopo, la svolta per Schwarzenegger arriva con Terminator.
Affrancato da vecchie mitologie (quella del peplum, riscoperta in Conan), James Cameron ne inventa una nuova, rivolta al futuro. Inventa il primo uomo, un Adamo enorme che però non ha niente di umano, è un robot e viene dal futuro ma anche dal passato, è un Golem nato da una scarica elettrica come la creatura di Mary Shelley. Schwarzenegger si anima e la vita del suo corpo è uno spettacolo, è quello per cui pagava felice il biglietto il bambino che eravamo a metà degli anni Ottanta. Lo scaliamo come l’Everest e poi il film comincia. Sullo schermo si dispiega il suo teutonico nome, quasi troppo grande per l’immagine, è la promessa ‘in cifre’ del miracolo a venire.
Il capitolo finale di Arnold esce dalle sale per raccontare invece l’ingresso in politica dell’attore, eletto governatore della California con una procedura nota come “recall”… Schwarzenegger vive l’esperienza politica come ha vissuto le altre vite, appassionatamente. La sua elezione non è una conversione ma un nuovo capitolo della sua storia, l’esito logico di quel mito scandalosamente americano che aveva costruito fin dall’infanzia austriaca. Accomodato tra un cane e un asino, si racconta su Netflix perché Hollywood non ha molto da offrirgli, se non qualche ruolo in film di serie B. Bloccato nel punto cieco del suo stesso mito (guardare Fubar per credere), fa quello che può ma invecchiare non è il suo mestiere.
Se Stallone è perfettamente al suo posto in Tulsa King, ha sempre incarnato la fatica e i suoi personaggi, anche i più giovani, portavano già sulle spalle il peso di mille vite, Schwarzenegger fa un effetto più inquietante. L’impressione dolorosa è che la fiction non aderisca più al suo corpo divenuto improvvisamente reale. Per quel corpo-macchina, che è la negazione stessa della morte, la vecchiaia è il peggiore dei tradimenti. Come se non potesse farsi carico dell’ordinario e nemmeno del peso degli anni. Paradossalmente i ruoli che gli permettono di invecchiare sono i meno interessanti della sua filmografia, unica eccezione Contagious che ne fa il suo soggetto. Bisognerebbe che un regista si occupasse seriamente di questo corpo che avrebbe dovuto salvarci dalla morte e ha finito malgrado tutto per tramontare. Magari un nuovo Cameron o un nuovo Verhoeven.