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Arirang
I calcagni sporchi e screpolati della locandina del film sono quelli di Kim Ki-duk. Che dopo tre anni di silenzio (Dream, 2008), un'enormità per chi, come lui, ha realizzato 15 film in 13 anni, gira la macchina da presa verso se stesso e, dal chiuso di una catapecchia sperduta, tenta di spiegare al mondo i perché della sua profonda crisi. Artefice di opere straordinarie (L'isola, Address Unknown, Bad Guy, Ferro 3), profondamente scioccato durante la lavorazione di uno dei suoi ultimi film, quando un'attrice rischiò la vita per un incidente sul set, il cineasta coreano si è rinchiuso da quel momento in una crisi esistenziale che adesso, in Arirang (colline che hanno dato il titolo ad una popolare canzone coreana, cantata più volte da Kim Ki-duk durante il film), esplode con la stessa forza di un disperato grido di aiuto. Rivolto in primo luogo a se stesso: "Faccio film per tentare di comprendere l'incomprensibile", spiegava anni fa il regista. Che oggi, quasi irriconoscibile rispetto a poche stagioni fa (imbolsito, con i capelli lunghi e ingrigiti), tra le lacrime urla il dolore di chi, meccanicamente, non riesce più a trovare il senso del proprio cammino: "Ready!, Action!", grida più volte davanti alla Mark II (videocamera con cui ha realizzato Arirang), si scaglia violentemente contro ipotetici attori, si fa intervistare dalla propria ombra, rivede sul Mac la scena portante del suo Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, quando con un masso legato alla vita scalava un'altura per raggiungere la vetta e meditare. Mangia, piange, canta a squarciagola: e riprende più volte in carrellata le locandine di tutti i suoi precedenti lavori. Poi assembla una pistola, la impugna, raggiunge tre location (presumibilmente quelle de La samaritana, Coast Guard e Bad Guy), entra e spara. Uccidendo una parte di sé, forse, prima di mettere in scena il proprio suicidio.
Non per tutti, quasi per nessuno, Arirang è tanto inaccessibile quanto struggente: partendo da un presupposto discutibile (tre anni di inattività, in fondo, non sembrano un dramma così sconvolgente), Kim Ki-duk rischia sì di mettersi alla berlina ma dimostra ancora una volta, anche in un progetto così malmesso e poco strutturato, la capacità di intuizioni e svolte improvvise che lasciano aperto uno spiraglio alla speranza. Quella di rivederlo presto al timone di un film capace, come in passato, di lasciare a bocca aperta.