Partiamo dalla buona notizia: Netflix si è decisa finalmente a produrre horror per adulti. Nulla di granguignolesco o che meriti il fatidico bollino rosso, ma tv show per un pubblico più esigente e maturo. Un solco aperto da Mike Flanagan, che, tra film (Hush, Il gioco di Gerald) e proposte seriali (The Haunting of Hill House, Midnight Mass), ha forzato l’algoritmo della casa madre spingendola verso territori non codificati.

La cattiva notizia è che questa piccola rivoluzione copernicana avviene pur sempre dentro la galassia standardizzata di Netflix, il cui Sole rimane la sceneggiatura (Sole che da un po’, va detto, batte anche sul pensiero critico, “netflixizzato” in modo preoccupante).

Deroghe sì, ma dentro il perimetro delle cose intellegibili, dei nessi causali, insomma dell’architettura razionale e rassicurante dello storytelling.

E dunque Archive 81 è un’ottima serie su Netflix che, però, è anche una serie Netflix.

Otto episodi in crescendo fino al quinto, sfregiati da un finale né brutto né scontato, semmai sbagliato.

Prodotta insieme alla Atomic Monster di James Wan (l’autore di Saw e The Conjuring) e creata da Rebecca Sonnenshine (The Vampire Diaries), rivela immediatamente una matrice metalinguistica cui deve gran parte del suo funzionamento.

 

https://www.youtube.com/watch?v=ibxKEqxARkE&t=3s

La scena è New York, tornata quella sinistra e indecifrabile di Rosemary’s Baby. Il protagonista, Dan (l’ottimo Mamoudou Athie), è un giovane archivista e restauratore di nastri magnetici. A innescare l’intreccio è il classico patto col diavolo: un “contratto” da 100 mila dollari per riportare in vita delle vecchie videocassette che celano forse la soluzione del terribile incendio che nel 1994 distrusse un palazzo dell'East Village conosciuto come "Visser", al centro di alcune inquietanti dicerie urbane. È un incarico economicamente allettante ma con clausole e stranezze tali (il compenso esagerato, il dover svolgere il lavoro in una villa fuori città in isolamento totale, ecc…) che avrebbero messo sul chi va là chiunque, senza necessariamente avere il quinto senso e mezzo di un Dylan Dog. C’è puzza di bruciato ma Dan accetta.

È la prima increspatura nell’universo logico dello spettatore. La superiamo: tutto sommato l’anomalia è accettabile, giustificata in parte dall’indecente offerta monetaria.

Le cose si complicano con l’entrata in scena della deuteragonista: Melody (la rivelazione Dina Shihabi), una studentessa di antropologia che nel 1993 stava realizzando un documentario, tramite videocamera, sul Visser. Le videocassette che Dan deve riparare sono state prodotte da Melody, che diventa così il personaggio principale della “storia nella storia” ma anche la regista occulta che muove i fili di quest’ultima.

Attenzione: non vengono semplicemente collegate due trame separate – classico procedimento della rievocazione, del flashback -  ma c’è un’unica linea narrativa che si biforca e si intreccia in modi inaspettati, comportandosi come un nastro di Moebius.

Anche il comportamento di Melody fa a botte con il nostro istinto di sopravvivenza: anziché darsela a gambe dal Visser e dai suoi loschi condomini vi si trasferisce per studiarli meglio.

Archive 81
Archive 81
Archive 81
Archive 81

È un’incongruenza che i difensori della coerenza della sceneggiatura potrebbero faticare ad accettare.

A loro diciamo di non proseguire perché è proprio nella violazione di questo patto implicito che si regge la scommessa di Archive 81. Il presupposto è che non solo i personaggi, ma la realtà tutta non sia né prevedibile né razionale. L’espediente, supportato da scelte (queste sì coerenti) di messa in scena (interessante la staffetta in regia del quartetto Rebecca Thomas/ Haifaa Al-Mansour/Justin Benson/ Aaron Moorhead) e di recitazione, su cui fa perno l’operazione è di alterare i confini tra il sonno e la veglia, l’immaginato (nel senso letterale di messo in immagine) e il mondo fisico.

I personaggi vengono lentamente terremotati su quella soglia dove la presenza e l’ombra sfumano e si sovrappongono. Si muovono in questo limbo senza più bussola, disarmati di percezioni affidabili, e scivolano, smarriti nelle trame dell’ipnosi, in un caos referenziale.

La porta che mette in comunicazione questi due domini, nessuno dei quali definitivamente oggettivo o soggettivo, è l’informe archivio di immagini cui il restauratore (dell’ordine?) dovrebbe restituire organizzazione e senso.

Archive 81 precisa così la propria natura di prodotto teorico e metatestuale, alimentandosi finché può dell’ambiguità e la polisemia del proprio oggetto. Impropriamente definito un horror sul found footage ne è semmai per larghi tratti una negazione, non solo perché si disinteressa apertamente di costruire il proprio discorso sul solo materiale di scarto, amatoriale (altro elemento che farà arrabbiare i puristi) ma perché ne disconosce a conti fatti la funzione veritativa.

La sostanza delle cose, sembrano suggerire gli autori, non è in ciò che sperimentiamo ma nemmeno in quello che vediamo. Dobbiamo spingerci oltre(mondo), non sapendo esattamente dove e fino a quando.

Accettare che abbiamo perso il controllo nel momento in cui si è permesso all’immaginario di crescere e replicarsi a dismisura, fino a rifluire al di qua dello schermo, come il rovescio del desiderio, il tana libera tutti di ignominiosi fantasmi, un’enorme velenosa rosa purpurea che si aggetta contro di noi.

Ci sembra di cogliere nello spettacolo sconcertante di un mondo raddoppiato, replicato, l’eco dell’aurorale critica cattolica al cinematografo, il peccato originale non sanato di un universo come il nostro ma distinto dal nostro, diabolico perché separato (come rivela l’etimo greco dia-bàllein: separare). Sotto questo aspetto, il rimando è, più che a Poltergeist, The Ring o addirittura Videodrome, a Sinister di Scott Derrikson.

È allo stesso tempo, secondo una lettura meno esoterica, un sintomo delle paure del terzo millennio, della techné sfuggita di mano e di testa, non più strumento positivo ma artificio e financo stregoneria.

Come anche, nell’indecidibilità costituiva di questo strano prodotto per lo streaming, il terrore di un ritorno al passato, a pratiche primitive, rituali, in una parola analogiche. È evidente del resto come Archive 81 utilizzi il vintage per “demonizzarlo”, senza più nostalgie e mistificazioni festicistiche.

C’è poi una lettura più spicciola, socio-politica, autorizzata da quel riferimento alle ore e ore di soap visionate (ma il discorso si dovrebbe allargare al blob di tutte le immagini cine-televisive fruite in oltre un secolo) che fanno pensare a una Cura Ludovico gentile ma non meno nefasta.

Archive 81
Archive 81
Archive 81
Archive 81

Una porosità semantica - quanto intenzionale poco importa – che rende questo prodotto seriale così poco seriale. Rilanciando cioè un discorso forte sulla paura, come continua tracimazione discorsiva, al limite non discorsiva, su un’idea pacifica prima ancora che pacificata di mondo.

L’horror può continuare ad avere presa, a rivendicare una necessità, se ricomincia ad essere sé stesso, uno iato tra il sentire e il comprendere. Se persiste nel dubitare, problematizzare, aprire all’infinito le scatole delle significazioni e delle rappresentazioni. Se, in breve, pone e ripone domande facendo propria una radicale esigenza di abdicazione. E abita il vuoto. Tutto l’inverso della legge dell’algoritmo.

Anche per questo appare inaccettabile, perché in palese contraddizione, il finale dello show, in cui il domino delle ambiguità viene fatto cadere nel nome di un rassicurante “spiegone”, con le tessere di un mosaico fino ad allora negato che tornano provvidamente al loro posto.

Il colpo di coda della sceneggiatura formato Netflix.

Sperando non siano anche i titoli di coda su una stagione nuova dell’horror, tutta ancora da (non) scrivere.