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L’Infinity War tra Marvel e DC Comics si combatte con un doppio duello. Il primo: per rivendicare il regno di Wakanda in Black Panther, il villain interpretato da Michael B. Jordan sfidava la Pantera Nera. All’ombra di una cascata, tutta la nazione assisteva alla disfatta del suo paladino. Il secondo: in Aquaman, il mezzo atlantideo Arthur sfodera il tridente per spodestare il malvagio fratello dal trono. La lotta avviene in uno stadio, davanti al popolo intero, anche se per il nostro eroe è ancora troppo presto per indossare la corona. Ma la dinamica di queste due sequenze è perfettamente speculare.
La prova che deve affrontare Arthur è una delle più classiche, dall’esito quasi scontato (almeno in prima battuta). Invece in Black Panther era il cattivone a turbare la quotidianità, presentandosi alle porte del “castello” e sconfiggendo il buono seguendo le regole. In qualche modo non era un traditore, ma aveva preso il potere secondo la legge. È la metafora dell’eterno inseguimento della Marvel da parte della DC Comics.
La Marvel ormai riscrive i canoni, costruisce immaginari, si sente padrona del campo. Nei suoi film osa anche aggiungere (nel bene e nel male) il sentimento del mondo, il senso di colpa, l’anima politica. La DC Comics deve ancora trovare un equilibrio tra l’orgia di effetti speciali e il background dei suoi campioni. Manca l’armonia: i dialoghi sono di grana grossa, le sceneggiature rischiano di implodere tra le mille esplosioni sottomarine.
Si vedono ancora problemi di postproduzione dopo il catastrofico Justice League e, per sopperire a un pandemonio telefonato, il regista James Wan si lancia nelle citazioni più smaccate, da Star Wars a Godzilla. Almeno in Batman v Superman: Dawn of Justice si era lavorato su una sorta di pietas messianica, sullo spettro dell’11 settembre e sul significato di giustizia, con un richiamo anche al ciclo arturiano (in Aquaman appena abbozzato).
Qui si punta sul gigantismo sfrenato, su una durata monstre di oltre 140 minuti, in una sorta di finimondo senza freni, dove la macchina da presa si muove a briglia sciolta e gli azzardi sono tangibili. Momenti da spottone pubblicitario, l’epica che cade sotto i colpi di un’enfasi portata al limite. Per non parlare dell’estetica, di un montaggio raffazzonato, di una colonna sonora costruita per ragioni di merchandising.
Ma forse è proprio questa la rotta che sta seguendo la DC Comics: non mettersi in competizione, puntare sull’entertainment più spicciolo, supportato da grandi nomi come Nicole Kidman e Willelm Dafoe. L’’unica soluzione è abbandonarsi all’impossibile, scegliere di “credere” anche quando tutto sta collassando, e trasformare Aquaman nel guilty pleasure più sfrenato. Nota a margine: una speranza cinefila. In uno dei tanti siparietti carichi di “umorismo”, il protagonista dice di non aver letto Pinocchio, ma di conoscere solo il film. Il consiglio per le feste è di recuperare la versione televisiva del 1972 di Luigi Comencini. Quello sì che era magnifico…