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Jason Momoa in Aquaman e il regno perduto, Courtesy Warner Bros Pictures / ™ & © DC Comics
In quel gran minestrone confuso che è sempre stato il DCEU, ovvero l’universo cinematografico della DC Comics che ha cercato invano di contendere lo scettro a quello dei Marvel Studios, Aquaman si è rivelato uno dei rari barlumi di consapevolezza editoriale, un successo mentre tutti gli altri film - esclusa la prima Wonder Woman - arrancavano o fallivano. Aquaman e il regno perduto conferma la sensazione e il mood cinematografico del primo film.
Confermato alla regia James Wan, anche produttore, il film vede Arthur/Aquaman (Jason Momoa) alle prese con la paternità e con Black Manta (Yahya Abdul-Mateen II), che vuole vendicare la morte del padre grazie al Tridente Nero, una reliquia che sprigiona il potere del regno perduto di Atlantide, distruggendo il mondo con la sua malvagità. Per affrontare il pericolo, l’eroe dovrà allearsi con il fratello Orm (Patrick Wilson), rinchiuso in una prigione lontanissima nel deserto. La sceneggiatura di David Leslie Johnson-McGoldrick è un raro esempio di sequel diretto, che riparte da dove si era interrotto il precedente con tutto il cast al completo escluso Willem Dafoe, con tanto di riassunto della puntata precedente detto fuori campo da Momoa, che proprio per questo non ha nessun interesse a cambiare il tono che ha portato nelle casse DC più di un miliardo di dollari.
Un film camp
Questo tono è quello che usando termini postmoderni potremmo definire camp, al confine forse col trash, ovvero usare la stupidità e l’idiozia, la ricercata demenzialità anche nelle scenografie e nel design, per creare un film spensierato e scanzonato, perfettamente a suo agio con i toni ilari e con uno spettacolo fracassone in cui il sorriso venga prima dell’epica. È una scelta di campo precisa e che può comprensibilmente far storcere e allontanare una parte del pubblico, che magari preferirebbe l’equilibrio miracoloso dei due Avengers finali diretti dai fratelli Russo, ma tale scelta Wan la porta fino alla fine con abilità: il gioco del riciclo parodistico di decine di immaginari e mondi altrui, da Guerre stellari a Thor (citato esplicitamente nel rapporto tra fratelli), dall’avventura spielberghiana ai tokusatsu giapponesi, cioè serie o film con effetti speciali, come Kamen Rider, è talmente spudorato, sempre meno legato alla narrazione, da diventare il centro del film stesso.
Magari non basta, e i difetti del film sono ben evidenti, a cominciare dal rimaneggiamento un po’ pedestre del personaggio di Mera dopo il processo che visto al centro l’interprete Amber Heard, per arrivare alla scrittura, senza contare una computer grafica che, quando deve mescolare animazione e interpretazioni umani va in affanno: però, nel suo presupposto di totale disinteresse alla serietà, Aquaman 2 sa cosa vuole essere , come ottenerlo e grazie alla perizia tecnica di Wan e dei tecnici degli effetti visivi ci riesce senza arretrare di fronte allo spettacolo che in un film simile dovrebbe essere un obbligo. In attesa della (presunta) rivoluzione che James Gunn apporterà come nuovo direttore creativo dei film DC, Aquaman può essere un buon viatico, una strada che già alcuni anni fa sembrava anticipare proprio il gusto di Gunn.