Il cinema della contemplazione ha trovato una nuova esponente in Dea Kulumbegashvili, trentottenne georgiana che, dopo il folgorante debutto Beginning, approda in Concorso a Venezia 81 con April. Un film consapevolmente estremista che conferma – anzi: ribadisce – il rigore di un’autrice consapevole di agire all’interno di un movimento transnazionale e, al contempo, del tutto posizionata nel suo orizzonte di riferimento.

Quella Georgia qui rappresentata nell’arco di una settimana, tra il 10 e il 18 aprile del 2023, e non solo impantanata in un sistema arretrato nonché violentemente patriarcale, ma anche minacciata tanto dalla natura quanto da razzi che a un certo punto brillano in lontananza per ricordarci quanto il Paese sia schiacciato tra la sfera di influenza russa e la promessa occidentale. Sono coordinate che ci aiutano a tracciare un paesaggio ostile e drammatico e che grazie agli strumenti poetici e pratici dello slow cinema trova una precisa chiave di lettura, disinteressata ad assecondare i gusti del pubblico mainstream eppure capace di inchiodarlo di fronte a immagini che reclamano attenzione.

Radicale nella forma e nel contenuto, April segue Nina, una ginecologa che alterna la professione ufficiale in ospedale con quella clandestina, praticando aborti clandestini in una nazione che non prevede l’interruzione volontaria di gravidanza.

Dopo la morte di un neonato durante il parto (che vediamo dall’alto in tutta la sua crudezza, lasciando però fuoricampo l’evento che innesca il dramma), Nina finisce sotto inchiesta ma non rinuncia né alla sua attività occulta (anche perché qualcun altro ci penserà al posto suo) né a sopravvivere in un’esistenza che pare degradare verso il basso, dalla ricerca di squallidi incontri occasionali alla progressiva magrezza di un corpo votato al sacrificio. E che sembra tradursi, se non proprio sdoppiarsi, in una misteriosa creatura che appare in una manciata di occasioni, incipit in primis, uno scafandro dalla pelle flaccida e consumata, senza volto né identità, che ci testimonia lo svuotamento interiore e l’avvilimento della carne di una donna capace di empatia ma non di legami, che si porta addosso i traumi (come sopportare l’annichilimento del miracolo della vita laddove la vita, specie di una donna, è condannata a non essere vissuta a pieno?) e comunque resiste allontanandosi sempre di più dalla possibilità di essere felice.

Ia Sukhitashvili in April
Ia Sukhitashvili in April

Ia Sukhitashvili in April

A forza di soggettive perturbanti e long take statici e dilatati, rarissimi movimenti di macchina e tagli di luce che plasmano ombre, Kulumbegashvili compone immagini in 4:3 di grande cura formale, dei tableaux vivants misteriosi e traballanti che non dimenticano l’importanza dei suoni e dei rumori (il ticchettio degli orologi, i versi degli animali, le pompe idrauliche, i motori dei camion).

Coproduzione tra Georgia, Francia e Italia (c’è anche la Frenesy di Luca Guadagnino), April risente delle lezioni di Tsai Ming-liang e Carlos Reygadas, cerca un’epica del dolore ma lambisce il manierismo nella forma. Eppure nella presunta impenetrabilità estetica trova il modo di connettersi emotivamente con il pubblico, sia grazie alla straziante e generosa performance tutta in sottrazione di Ia Sukhitashvili sia attraverso una sconvolgente economia dell’immagine che lavora soprattutto sulla tensione drammatica del fuoricampo (la scena dell’aborto ne è l’esempio più eclatante).