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Appaloosa
C'è l'amicizia, quella tra uomini veri, inossidabile e discreta. C'è la donna (Renée Zellweger) dalla dubbia morale, quella che si mette di mezzo e minaccia la schietta fratellanza maschile. C'è il villain (Jeremy Irons), arrogante e soverchiatore, quello che non vedi l'ora di ficcargli una pallottola in testa. E c'è infine lo spazio, le grandi pianure e l'immanenza del cielo, dove gli uomini, i fucili e i cavalli sono come inglobati, macchie viventi nel tutto organico. L'Appaloosa di Ed Harris - alla sua seconda prova da regista dopo Pollock - è questa: un fantasma in piena luce del western che fu. Un decalco sul cinema dei padri - Ford e Hawks in testa - che scavalca le generazioni di mezzo (le divagazioni moderne di Penn, Peckinpah e Eastwood) per riannodare il filo della memoria fino alle origini, celebrando la sua mitologia e omettendone la storia. Certo non mancano gli accenti crepuscolari, come quel senso di estraneità che segna l'umore dei due protagonisti, - straordinari sia Harris che Mortensen, autentici cavalieri dell'ovest, morale netta e decisionismo maschio - mentre osservano con crescente disincanto e stralunato humor il mondo attorno che cambia, tra compromessi politici, diritti del dollaro e donne fedifraghe. Ma sono appena sfiorati, corpuscoli di storia finiti lì per caso, da spazzare via per rinsediare senza ombre il mito, come avviene nel gran finale. Prevale il rigore filologico condito d'ironia e dialoghi da incidere sulla pietra. Passa quell'unico messaggio, e lo sottoscriviamo. Al diavolo la politica, facciamo a meno anche della Storia. A noi il western piace ancora così.