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Anselm
Si parla per la prima volta di Anselm Kiefer alla fine degli anni '60, quando tra Germania, Italia e Svizzera espone autoritratti, foto e quadri, con il saluto nazista su sfondi di rovine e campagne deprimenti, azione politica senza mediazioni: “Gli americani ci hanno licenziato dalle nostre responsabilità. Ci hanno spedito pacchetti di assistenza e democrazia”. Ma i conti “con la nostra identità” non possono essere più rinviati, dice Kiefer incominciando una profonda vocazione della (in)coscienza collettiva attraverso l'arte, a partire dai materiali (piombo, gesso, terra, laterizi,) e dall'espansione dei formati (una sorta di grandezza/distruzione quasi ostile carica di simboli).
Cresciuto tra le macerie dei bombardamenti, condivide con Paul Celan, “il” poeta dell'Olocausto, la certezza che sia possibile, indispensabile, un avvicinarsi all'orrore, la ricerca di un dicibile anziché un lutto smemorato, anziché la fine della poesia, secondo Adorno. Come Celan, mentore risonante di cui riprende ciclicamente i versi nelle opere (la “Fuga di Morte” per prima), crede che l'unica realtà possibile sia la poesia, una costruzione di memoria e indipendenza del linguaggio, emozionante e ardua. In questa complessa dinamica l'Anselm di Wenders sembra cercare come l'apparente estraneità di quest'opera rispetto al mondo reale sia metafisicamente informata proprio dal nostro mondo, a partire dalla tragedia dell'Olocausto e dalla storia del popolo tedesco, su cui Kiefer ha lavorato per tutta la vita.
Perché in 3D? Nessuno vi darà una scala per salire e poi sovrastare le torri vuote e sghembe dei Palazzi Celesti scoprendo misurazioni tridimensionali di un pensiero artistico, né un lume caldo per attraversare il paesaggio mitico di catacombe, colonne e detriti sotterranei di Barjac, la “zona” (a nord di Avignone, e poi a Croissy, Parigi) eletta decenni fa da Anselm Kiefer come immenso atelier del suo pensiero sull'arte, tra hangar, tunnel, macerie, specchi d'acqua, tubature a spirali, un mai-visto tentativo di sostenere l'arte come diffida alla realtà del mondo.
Nessuno ci darà lenti protettive per sopportare i getti di fuoco sulle tele impastate di fibre, piombo, carboncino e rami, né scarpe volanti per entrare senza danni nella “glass house” di manichini bianchi immacolati, le dame dell'antichità da cui parte Wim Wenders per il viaggio totale a tre dimensioni. In una lunga e progressiva frequentazione Wenders ha maturato quanto l'arte di Kiefer sia prima di tutto un luogo-cosmogonia, anche nella concezione pittorica fuori dai set, un luogo fisico-metafisico che pone il problema di abitarlo nella sua imponente volatilità come nella sua aerea materialità, di peso e purezza, sopra, sotto, dentro, attraverso, prima e dopo.
Dal 2020 ha incontrato Kiefer e organizzato una sorta di “residenza” a tappe tra gli atelier, alla permanente dell'hangar Bicocca a Milano e poi alla mostra a Palazzo Ducale, a Venezia (2022), cominciando da un approfondito percorso “nella sua infanzia, tra le sue sculture, i quadri, gli acquerelli, il suo rapporto con la lingua, la religione, l'alchimia, l'astronomia, pensando già a quello che poteva riguardare le riprese, un repertorio di 1200 pagine: ero sopraffatto dal lavoro , volendo essere all'altezza delle sue creazioni” (Wenders).
Questa faccia della spazialità architettonica, scultorea, apparentemente mimetica, delle opere, la percorribilità, e dunque il tempo, dell'intera produzione (spesso Kiefer “appoggia” i suoi quadri tra i materiali e le sculture) fa i conti con una tensione alla inaccessibilità , quantomeno a parziale esposizione sparsa e incontenibile, anche quando gli dedicano una retrospettiva alla Royal Academy a Londra, o nelle installazioni in giro per il mondo. Dall'anno scorso ha ammesso brevi e saltuarie visite a Barjac su prenotazione. Per dire, La domenica delle palme (2007) è composta da trenta elementi tra dipinti, piante, teche, per un'estensione di circa 25 metri per 10. È, certo, una posizione condivisa con diversi protagonisti dell'arte contemporanea. La sua solitudine, la sua differenza, la concentrazione sul piacere di restare nel “trauma” in un'arte di dimensioni traumatiche, è però in opposizione all'esibizionismo.
Ora, in questa condizione, congiunzione e totalità sembrano l'offerta sul piatto d'argento per il cinema, che in genere crolla su se stesso quando, non lavorando su stesso, si accanisce sulla “documentazione creativa” di pittori e scultori tra Rai e Sky Arte, selezionando, intervistando e panoramicando, diventando spesso ridicolo e insieme discretamente informativo, mentre la storia di questo genere cinematografico, incrementato a dismisura negli ultimi anni, si fa dalle trasformazioni concettuali di Luciano Emmer all'invenzione deflagrante, digitale, mediale e performativa di Peter Greenaway. Il quadro è il quadro, per essere chiari. E il cinema è il cinema.
Ecco, qualcosa di sorprendente, di esatto, succede con Anselm: spaccando ogni illusione di realtà nell'impiego finzionale, iper-spettacolare, forse vano, del 3D nativo, Wenders porta ai nostri occhi l'ingombro estetico, la dimensione emotiva, dolorosa, morale, e l'inadeguatezza dell'uomo, il “visitatore”, davanti alla originale indipendenza di un'opera di modernissima archeologia e storicità. Pare evidente però che, volendo o non volendo, Wenders più che tradurre lo spazio-tempo di Kiefer, più che accompagnarci a una possibile totalità, cosa che in effetti succede con grande godimento, fa un film immersivo d'arte digitale, come le Infinities di Luca Ronconi se stiamo al teatro, oi Classic Painting Revisited di Greenaway, se stiamo alle performance multimediali. È una straordinaria macchina barocca in cui la meraviglia resistere all'inganno pop e la fedeltà alla poesia (di Kiefer) libera l'infedeltà dell'arte (di Wenders).