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Gael García Bernal in Another Day - Foto Matteo Casilli © Indigo Film
(A)nothere(nd) / Non qui / Un’altra fine.
In un luogo e in un tempo indefiniti (una plumbea metropoli, siamo ai giorni nostri? O in un domani prossimo?), Aeterna ha sviluppato un programma che permette di poter impiantare i ricordi di defunti ancora “caldi” in altri esseri umani, locatori che in questo modo possono "ospitare" persone strappate all'affetto dei congiunti e dare modo a questi ultimi di avvicinarsi più gradualmente alla perdita definitiva.
Geometrie architettoniche, geometrie sensoriali, Piero Messina torna alla regia di un lungometraggio dopo L’attesa (2015) e lo fa con un’opera (la sua seconda per il cinema) che sorprende, per tematica e sviluppo, per concezione e realizzazione, totalmente aliena rispetto ai canoni abituali della produzione nostrana: Another End (gestazione lunga, caratura internazionale), titolo che è anche il nome della tecnologia al centro della trama, è sci-fi illuminata che attinge da modelli altissimi e riconoscibili (lo spunto se vogliamo è anche quello della serie Netflix Altered Carbon) ma che non soffoca le proprie ambizioni di fronte alla piattezza e alle limitazioni del derivativo.
Sembra di ritrovarsi dentro Blade Runner e un attimo dopo riscoprirsi vulnerabili nel buio di un locale erotico illuminato flebilmente dai neon fluo di Nicolas Winding Refn, oppure girovaghi nelle distese fredde di quartieri anonimi che rimbalzano superfici asettiche e glaciali: che il regista 42enne sapesse girare bene era cosa nota, riuscire a non soccombere ai futili estetismi o a stucchevoli manierismi è invece il punto di forza che ne contraddistingue l'ormai piena maturità artistica.
Sì, perché Piero Messina – ma il plauso è da estendere anche ai vari comparti che determinano i toni e le atmosfere dell'opera (le luci di Fabrizio La Palombara, le musiche di Bruno Falanga, il montaggio di Paola Freddi, le scenografie di Eugenia F. Di Napoli) – riesce a muoversi tra i territori della fantascienza distopica con disinvoltura e credibilità, ma soprattutto con la consapevolezza di chi sa anteporre il dubbio, il dolore, l'umano alla bulimia ipertrofica di immagini sintetiche roboanti eppure vuote, spettacolari ma insipide, buone per un intrattenimento che resta in superficie ma incapaci di insinuarsi sottopelle.
Ecco, Another End – scritto dal regista insieme a Valentina Gaddi, Sebastiano Melloni e Giacomo Bendotti – è come se ci chiedesse di entrare in una aporia dove i ricordi (i nostri, del protagonista) finiscono per svuotare il nostro sguardo, proprio come gli occhi di Sal (Gael García Bernal), che si spengono quando decide di immergersi nel recupero di quei frammenti impossibili da ricomporre, brandelli dell'amore della sua vita, Zoe, morta in un incidente d’auto.
Soggettive che traslano, installazioni museali fatte di memorie in 16mm, coscienze che emigrano da corpi inanimati a terzi disposti – dietro pagamento – ad ospitare un vissuto che non gli appartiene per qualche ora, qualche giorno, mai per sempre, perché la “simulazione” ha un inizio e una fine.
Un'altra fine, Another End: è la sorella di Sal, Ebe (Bérénice Bejo), scienziata di Aeterna, a spronare il fratello, a convincerlo che per alleviare il dolore potrebbe decidere di rincontrare Zoe, seppure sotto altre sembianze, per poterle dire veramente addio. È così che Sal ritrova Zoe ma nel corpo di un’altra donna (Renate Reinsve, incredibile la sua prova), un corpo sconosciuto in cui lui misteriosamente riconosce la moglie. Ciò che si era spezzato sembra improvvisamente ricomporsi. Ma è una gioia fragile, effimera, insidiosa e, arrivato al termine del programma, Sal non intende assistere docilmente alla dissoluzione del proprio amore, alla perdita definitiva della moglie.
Il cuore tematico del film (in gara alla Berlinale, nelle sale dal 21 marzo) invita costantemente alla riflessione di natura (bio)etica e morale, dilemma che chiama in causa variabili delicate, e che nel clamoroso colpo di scena finale ci costringe a considerare un cambio di prospettiva totalmente inaspettato, che rimette con potenza al centro il personaggio della Bejo: fin dove può spingersi la scienza, la tecnologia (non se ne parla, ma la questione tocca anche i quesiti sull’IA), se potessimo governarla nell’illusione di poter tenere in vita chi amiamo fino a quando saremo finalmente in grado di dirgli addio? Ma, soprattutto, ammesso che questo sia possibile, quel momento arriverà mai davvero?
Cambio di prospettiva che oltretutto rafforza anche l’altro aspetto, meno superficiale, del film: perché è vero che al netto dell’apparente matrice fantascientifica, in realtà Piero Messina confeziona un mélo struggente (“Another End è una storia d’amore. Sull’amore che vive nelle parole, tra i pensieri, nei ricordi, ma che soprattutto vive e cresce in silenzio nei corpi. Di nascosto. Come un segreto del corpo”) ma, consapevolmente o meno, finisce anche per ragionare sulla natura propria del cinema, su contenitore (i locatori) e contenuto (le coscienze di altri), dunque sul misterioso e sempre labile equilibrio che separa/unisce attore e personaggio.
E lo stesso vale per l’insondabile meccanismo del déjà-vu: la sensazione di ritrovarsi al cospetto di qualcosa che abbiamo già visto, già vissuto, non è forse equiparabile a quelle tracce di coscienza di altri che potrebbero rimanere “incastrate” nel subconscio dei locatori?
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, diceva qualcuno, ma non è forse vero che siamo fatti anche della stessa materia delle nostre visioni, dei nostri ricordi? Ritrovarne traccia, seppure in altri territori, sotto forma di qualcos’altro, è la fascinazione più grande che sa suscitare questo film. Per poi farci risvegliare, trafitti da quel primo, e unico, bagliore di sole.