Può esistere la favola in un mondo che non sia la fantasia di un film hollywoodiano? La risposta dovrebbe essere scontata, eppure nell’ultimo lavoro di Sean Baker – anche questo in concorso a Cannes - le cose sono meno definite.
Anora, il nome del personaggio che dà titolo al film, è la nostra candidata a Cenerentola dell’anno: giovane spogliarellista, impiegata in un nightclub di Brooklyn, cede alla avances del rampollo di una famiglia di ricchi oligarchi russi, al punto da convolare a nozze dopo pochi giorni di sesso, droga e altri bagordi.
Apriti cielo. Saputo del matrimonio, i genitori di lui salgono sul primo aereo per New York decisi a porre fine all’incauta unione. Nel mentre i due sposini vengono presi in ostaggio dal fedelissimo dell’oligarca, un tuttofare armeno che si accompagna a due sgherri. La luna di miele prende un sapore amaro.

Il primo lavoro di Baker dopo la trilogia sulla periferia americana (Tangerine, The Florida Project, The Red Rocket) è una versione indie, nuda e cruda di Pretty Woman, ovviamente con altra malizia e finale. Il che non esclude la sopravvenienza della favola – ed è la questione da cui siamo partiti – pure negli outskirts metropolitani, ed è questo il dato più gradevole, la nota delicata, del nuovo lavoro del regista americano. Che se da un lato non rinuncia ai segni particolari del suo cinema – l’utilizzo dell’Iphone, la predilezione per gli ultimi, la presenza di immigrati e di famiglie tossiche, lo smascheramento dell’American Dream – dall’altro mostra un desiderio maggiore di giocare con le convenzioni narrative e di ammorbidire i tratti di una visione non ancora pacificata ma certamente più distesa. Così, dopo un’ora buona di scene R-17 e di intreccio romance, si sterza sullo humour da black comedy, un tempo lungo un giro di notte, tra locali equivoci, gag slapstick e quartieri russofoni. È la parte migliore del film, quella in cui il cinema vivo e cronachistico di Baker incontra felicemente la partitura di genere e la brillantezza di scrittura. Sempre in bilico tra dissacrazione ed empatia, amore per i personaggi e critica sociale.

​​​​​​Anora conferma anche però la canonizzazione del cinema di Baker nel circuito dei grandi festival: siamo ormai lontani dalla ruvidezza spericolata degli esordi e oltre già il perimetro del cinema indipendente. È un lavoro più morbido e alla moda, capace, nonostante la dissipazione (gira troppo, dura di più), di assimilare elementi pop, gusto per il grottesco e verismo da smartphone con accattivante disinvoltura. Un cinema già da un po’ sfilato all’uomo della strada ma affidato ogni volta a un mix di giovani attori di talento – notevole la protagonista, Mikey Madison - e veterani della recitazione come Yuriy Borisov.

Sospeso nella luce fiacca di un sole indeciso, Anora è un film di passaggio: dall’estasi del sogno alla malinconia del risveglio. Un’istantanea di felicità e il suo negativo. L’ennesimo gesto di attenzione verso i dimenticati, che non sanno che cosa desiderare e non saprebbero nemmeno impararlo. Ma che almeno vogliono vivere.