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Anima bella
In un imprecisato borgo rurale del Centro Italia, la neo-diciottenne Gioia (Madalina Maria Jekal) si prende cura del gregge di pecore, aiuta il padre (Luciano Miele) nella distribuzione dei prodotti caseari ma, soprattutto, non perde occasione per rendersi utile con le persone (anziani, bambini) della propria comunità.
Un gesto, una parola, abbracci sparsi, la dimensione umana e sociale di Gioia – orfana di madre – trova nel rapporto col “babbo” Bruno l’apice di uno stare al mondo che è votato al bene senza nulla a pretendere.
Ma un’ombra, il demone del gioco d’azzardo, infiniti debiti, costringeranno la ragazza a prendere in mano la vita di quell’amato padre.
Quattro anni dopo il notevole esordio (Manuel), Dario Albertini firma ancora una volta un’opera a suo modo sorprendente, che non tradisce la sua formazione documentaristica e che, guarda caso, in un certo senso rimanda al tema dominante del suo primo lavoro, Slot - Le intermittenti luci di Franco, doc che raccontava le vicende di un giocatore d’azzardo compulsivo.
Madalina Maria Jekal in Anima bellaQuello che però lega in maniera naturale Anima bella al suo film precedente, ovviamente, è anche stavolta il ribaltamento di ruoli che avviene nel rapporto genitore-figlio: lì era il giovane protagonista, uscito dal riformatorio, a doversi prendere cura della madre carcerata, qui è Gioia a sobbarcarsi il compito di tentare un recupero, quello del padre dipendente dalle slot machine.
Albertini, anche autore della sceneggiatura (con Simone Ranucci) e delle musiche originali (belle, con quel sax solo nel finale di rara potenza) non sbaglia un’inquadratura, gestendo in maniera esemplare – anche grazie al montaggio di Desideria Rayner – il timing di ogni singola sequenza, si allontana con disinvoltura dal superfluo e riempie di senso qualsiasi situazione, aiutato in questo dalla commovente (mai melensa) prova di Madalina Maria Jekal, esordiente pura dal talento cristallino (grande scoperta come lo fu, all’epoca, Andrea Lattanzi), con Luciano Miele perfetto nell’incarnare la fragilità di un uomo buono seppur dominato da un malessere costante, oltre all’infinita schiera di volti e corpi circostanti che donano al film la necessaria, “imperfetta” dose di verità che ne caratterizza l’intera esistenza.
Dario Albertini sul set di Anima bellaCon la partecipazione di Elisabetta Rocchetti, vicina di stanza nel motel dove la protagonista trascorre le notti una volta raggiunta la città, e con un breve cammeo dell’indimenticata Piera Degli Esposti, personaggio forse innecessario ai fini della narrazione, ma decisivo nel sintetizzare – con una battuta – il senso ultimo di Anima bella, film di un’umanità ai limiti dello sconvolgente: “Gioia, che bel nome. La felicità e la beatitudine si possono nascondere, ma la gioia no”.
E quel fermo immagine che interrompe la corsa finale in bicicletta sarebbe piaciuto molto, scommettiamo, a Truffaut. Ma anche al nostro Claudio Caligari.