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An Unfinished Film di Lou Ye
Un regista (Mao Xiaorui) e la sua troupe riaccendono un computer vecchio di dieci anni. Lì dentro ritrovano materiale di un film mai terminato (per problemi di censura), che decidono di riprendere in mano. Richiamato l'attore di allora, Jiang Cheng (Qin Hao), la macchina produttiva sembra rimettersi in moto. Siamo nel luglio del 2019, l'inizio delle nuove riprese è previsto tra la fine dell'anno e l'inizio di quello nuovo.
Nel gennaio 2020, a ridosso del capodanno cinese, la troupe e il cast si ritrova in un hotel nei pressi di Wuhan per terminare la lavorazione: sono i giorni dell'esplosione del Covid, la città viene blindata, nessuno potrà uscire da quell'albergo, nessuno potrà uscire dalla propria stanza.
Che oggetto inclassificabile An Unfinished Film di Lou Ye: il regista cinese torna al Festival di Cannes (in Special Screenings) dopo il passaggio in concorso a Venezia nel 2019 con Saturday Fiction (film ampiamente sottovalutato, peraltro). Se allora giocava col dispositivo del metacinema per ricreare le atmosfere di un noir dove attori e spie erano chiamati a recitare più di un ruolo, stavolta si affida al filtro del mockumentary per dare vita ad una riflessione sull'impossibilità di dare compiutezza tanto alle cose (alle opere d'arte, nello specifico) quanto all'esistenza.
Utilizzando frammenti e materiale inedito del suo Spring Fever (2009, con Qin Hao che interpretava Jiang Cheng...), il regista di La donna del fiume - Suzhou River e Summer Palace dapprima ci convince che stiamo per assistere ad un documentario sulla "nuova" realizzazione di un film, adottando una sorta di espediente à la Boyhood di Richard Linklater, poi ci fa piombare nell'incubo della pandemia e della quarantena.
A questo punto il fulcro della narrazione si sposta sul personaggio dell'attore-attore, Jiang Cheng/Qin Hao, impossibilitato a ritornare a casa dalla giovane moglie e dalla figlioletta neonata Paopao. Ecco dunque che il film (nel film) rimane nuovamente "incompiuto" e le vite stesse di tutti coloro chiamati a doverlo realizzare restano sospese, ingabbiate in un limbo dal quale sembra impossibile fuggire.
Lou Ye cattura questa "pausa" tramite una narrazione che per ovvi motivi passa sempre più attraverso l'utilizzo di smartphone (le infinite videochiamate con la moglie, le videochiamate di gruppo con gli altri membri della troupe, quel momento di ridicola euforia collettiva, seppur solitaria, per il countdown del capodanno cinese), arrivando verso la fine a fare propri i video amatoriali che dapprima celebravano la fine del lockdown (il 4 aprile e l'8 aprile 2020) e qualche tempo dopo testimoniavano la ribellione di una città che stava per rivivere lo stesso incubo (nel novembre 2022).
Un ibrido difficilmente catalogabile, eppure potentissimo: possiamo tornare a recitare in un film di dieci anni prima? Ma soprattutto gli eventi inattesi della vita, le sospensioni forzate, in che modo ci restituiscono al mondo?