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Amy Winehouse, chi era costei? Finita nel Club 27, ovvero morta a 27 anni come Kurt Cobain, e tante altre anime dannate del rock, non era però una cantante rock: era jazz, ma il rock, l’autodistruzione e la dissoluzione del rock, la divorava da dentro. Il suo percorso artistico, esistenziale e, sì, mortale lo ricostruisce con ottimo materiale d’archivio, accesso totale a testimonianze, esibizioni e registrazioni quell’Asif Kapadia che già aveva messo davanti alla camera (ardente) il genio di Ayrton Senna.
Già fuori Concorso a Cannes, poi record d'incassi negli USA, Amy fa venire i brividi: non per la forma cinematografica, che si bea in lungo e in largo dello smisurato bacino da cui può attingere il racconto e poco più, piuttosto per la storia, la storia di Amy, ragazza ebrea di Londra nord, un padre assente, una madre che rimproverava di essere troppo soft e, lo dice Tony Bennett, c’è da credergli, un talento jazz, non quello intellò, che l’avrebbe accostata a Ella Fitzgerald e Billie Holiday.
Il regista di Senna e Amy Asif KapadiaInvece no, invece l’infanzia disturbata, la bulimia non curata, e poi la droga, l’alcool, e ancora l’eroina, il crack e la cocaina, e ancora, e ancora, sino a spolpare, snervare e dissolvere un fisico minuto, i dentoni equini e quel sorriso che tutto poteva e quasi nulla si sarebbe concesso.
Se n’è andata, Back to Black, lasciando dietro la piccola grande donna che era, l’amore tossico per Blake Fielder, per cui si tatuò un taschino sul cuore e la scritta Blake, e un padre, Mitch, che l’abbandonò piccola e, verrebbe da dire, la sfruttò da grande: eppure, “lei avrebbe baciato per terra dove metteva il piede”. Il padre s’è scagliato contro il film, ha richiesto cambiamenti e minacciato di adire a vie legali: facesse come gli pare.