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Amour di Michael Haneke
Vediamo come risuonano certe cose in alcuni film in questi giorni, gli occhi dolci e assenti di Anne che parlano soltanto per Georges in una casa del morente che tiene lontani anche i figli e i tubi di Eluana in transfert nella macchina che tiene in vita l'addormentata nella casa tetra della Divina Madre di Bellocchio (la Huppert figlia-madre è l'idolo a due facce della stessa moneta perturbante), ma anche la stanzetta del suicidio assistito di Quelques heures de printemps di Stephane Brizé (visto a Locarno), un bicchiere, una madre, un figlio, e l'ultimo abbraccio di rimpianti e perdoni... Tanto è pubblica, frastornante, la “dialettica” sul morire, tanto è dimenticato, nell'assoluta solitudine, il materiale apartheid del morire.
Nel libro di un gruppo di allegroni intitolato “Che cosa vuol dire morire”, tra Emanuele Severino, Roberta De Monticelli e Giovanni Reale, il filosofo Remo Bodei ricorda l'impudicizia, la presunta “immoralità” che relega la morte oggi, diversamente dalla ritualità cultu(r)ale di altro tempo: “Si moriva circondati da parenti e amici, era una cerimonia pubblica. Oggi, invece, non il sesso ma la morte è il vero osceno. “Obscenus”, cioè quello che sta fuori dalla scena, che si nasconde. Nel titolo, Haneke ha compresso la profonda solitudine dei due nell'estrema scelta dell'uno: l'amore, l'amore al tempo della morte oscena. Nella casa degli ottantenni Anne e Georges entriamo come l'incipit di un pezzo di cronaca nera: avvertiti dal portiere che sente odore di gas, polizia e vigili del fuoco abbattono la porta di un appartamento e trovano due cadaveri, una coppia di anziani professori di pianoforte. Il flashback condiziona l'occhio dello spettatore a una sorta di responsabilità-solidarietà con la “procedura” della buona-morte, ma ci mette anche nel tormento di identificare per loro (cioè per noi) una possibile morte. In questo senso il film di Haneke ha una potenza sociale che sale dall'intimità. A tal punto, in verità, che un gesto estremo di pensiero ci fa ritenere il film al di là di ogni “utilità”, facendoci fare esperienza di ciò che già perfettamente sappiamo, estraendola da una voce lontana sempre presente.
La ricostruzione dei mesi di malattia di Anne (l'indimenticabile Emmanuelle Riva di Hiroshima mon amour), nell'assistenza disorientata, paziente, incerta, esperta, insofferente, disperata, di Georges (Trintignant), è una selezione a volte geniale e implacabile dei passaggi di una relazione matrimoniale aggredita dal termine naturale, inaccettabile e deludente, della vita, giorni, settimane, mesi che ricondizionano i sentimenti e la quotidianità, mentre gli occhi di Anne parlano, le infermiere sbagliano, dolore e isolamento sono sempre a due e una figlia (la Huppert) riesce a porre questioni ereditarie a una madre quasi demente. La fine non può essere lieta. Ma neanche morbida, con l'autore di La pianista e Il nastro bianco. Georges sceglie: racconta un ricordo di bambino, prende un cuscino, e scrive una lettera. Non essere più due, ma uno, in questo caso è impossibile... Anche se è impraticabile decidere qual è l'interprete che supera l'altro, è Trintignant che ci porta a un delirio d'identificazione della prossima “età”. Palma d'oro a Cannes.