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Nel 1840, Mary Anning (Kate Winslet), già illustre paleontologa con reperti fossili da lei rinvenuti conservati al British Museum, sbarca il lunario a Lyme Regis, costa meridionale dell’Inghilterra, recuperando e vendendo ammoniti di piccolo calibro ai turisti. Con lei vive l’anziana madre, prostrata dalla morte prematura di otto figli, in passato si è concessa, parrebbe, qualche avventura saffica, ma il presente è sordo e solitario, finché un facoltoso collezionista londinese, Roderick Murchison, non le affida la giovane moglie Charlotte (Saoirse Ronan), affinché possa ricostituirsi tra mare, aria aperta e ammoniti dalla recente crisi. Insieme, manco a dirlo, troveranno ristoro, e amore.
Opera seconda scritta e diretta dall’inglese Francis Lee (La terra di Dio), Ammonite è in cartellone alla Festa del Cinema di Roma, ed è – nella parole del regista – “un film molto personale. Un’indagine su come affrontare una relazione partendo da basi profondamente solitarie. Su come impariamo ad amare di nuovo dopo essere stati feriti. Su come possiamo essere tanto aperti da amare ed essere amati”.
Invero, questa presunta idiosincrasia è ben accordata allo Zeitgeist, all’agenda politico-ideologica corrente: più che un film, un editoriale, teso a celebrare la (auto)determinazione femminile, il women empowerment, complice la relazione tra le due protagoniste. Per liberare, ehm, il campo da equivoci, e aprirsi la strada verso un’altra statuetta, al Toronto Film Fest Kate Winslet ha visto bene di fare pubblica ammenda per aver lavorato con Roman Polanski (Carnage, 2011) e Woody Allen (La ruota delle meraviglie, 2017), ma stiamo sul film, che trova in lei e nella Ronan due discrete interpreti, stavolta non eccezionali.
Comunque, il problema non sono loro, ma Lee, e chi per lui: il film è programmatico, senza palpiti, malgrado una bella scena di sesso, e nondimeno enfatico, scopertamente metaforico, vastamente didascalico. Una tesi non servita dalla regia, dallo stile (quando arriva l'epifania londinese sul Tamigi, il film si apre per qualche inquadratura, con spreco di danaro, perché la partita era già irrimediabilmente persa).
Due gemelli diversi, Ritratto della giovane in fiamme (2019) di Céline Sciamma e The World to Come (2020) di Mona Fastvold, soprattutto il primo, pur muovendo da intenzioni e approdando a ri-soluzioni analoghe potevano bearsi, e bearci, di un lavoro visuale, drammaturgico degno di nota, viceversa, Regis apparecchia la messa cantata senza lasciare alcuna ambiguità, alcun fuoricampo attivo, alcuno spazio spettatoriale implicito, alcun senso da riguadagnare: fossilizzato, davvero.
Chicca finale, allorché Anning si reca al British Museum a vedere il proprio reperto, prima carrellata sui visitatori solo uomini, poi close-up su una statua evirata. Le rimangono solo le palle, che in misura di due danno l'esito e il voto al film. PS: agli Oscar, e ai Bafta, ci cascheranno. Intenzionalmente, ovvio.