Armenia. 1948. Terminata la guerra, Stalin concede agli armeni scampati al genocidio di rimpatriare nel paese d’origine, ora sotto il regime comunista.

Tra loro c’è il vedovo Charlie Bakhchinyan, l’Amerikatsi che, dopo trent’anni negli USA, trova in patria anziché la casa e il lavoro promessi, la reclusione in cella “per propaganda capitalista” conquistata indossando cravatte e disegnando monti. Per fortuna sua, tra incomunicabilità, sevizie e lavori forzati, un giorno un terremoto crea una breccia tra le mura del carcere; la Siberia promessa è scampata e Charlie dalle grate della cella può seguire la quotidianità di una vedetta del penitenziario, artista represso e “protetto” perché sposato con la cognata di un importante gerarca.

L’americano di origini armene Michael A. Goorjian, nella tripla veste di regista, sceneggiatore e attore protagonista, riapre l’album di famiglia per discutere di scorcio le conseguenze di uno dei più efferati massacri del Novecento: “di solito i film sull’Armenia si concentrano su quell’evento cruciale che è stato il Genocidio, ma in realtà è limitante raccontare la cultura e la vita di un paese intero limitandosi a quel capitolo tragico” ha dichiarato il cineasta.

E infatti va oltre, cantando l’insopprimibile vitalità dell’uomo pur nella tragedia (d’echi kafkiani), e soprattutto scandagliando con implacabile, rancoroso umorismo le conseguenze psicologiche della vita sotto un (qualsiasi) regime, puntando il dito (da americano, lo ricordiamo) sull’oscurantismo e l’ottusità che quello stalinista diffuse nel popolo e convalidò come legge morale, sulla repressione che comportò di tutti gli istinti vitali, i talenti e le qualità individuali, fino a rende gli uomini automi, marionette burattinizzate da burocrazia ed efficientismo in nome di una Causa lontana e incomprensibile.

Amerikatsi, nell’impeto denunciatorio, si mostra debitore ma autonomo rispetto ai migliori film sull’olocausto (da Il pianista, passando per Il figlio di Saul, senza dimenticare Shindler’s List e Il bambino dal pigiama a righe). Perché insiste sul capovolgimento dei valori, ovvero di sguardi (la grammatica narrativa del film è punteggiata, simbolicamente, di cellette, varchi, finestrelle, feritoie), dei posizionamenti tra dominanti e dominati, della reversibilità degli spazi che definiscono il potere e stabiliscono la repressione: Goorjian calca sui paradossi sottolineando come una vedetta carceraria con donna, casa, figlio e lavoro, possa vivere la stessa tremenda frustrazione, la repressione del sé di un confinato che lo guarda e lo incoraggia a ritrovare la propria vocazione di là dalla breccia del muro.

Perciò, rimanendo in costante equilibrio tra dramma storico e commedia dei caratteri, tra denuncia testamentaria e umorismo che talvolta sconfina nella caricatura (i gerarchi e direttori del penitenziario in cui è recluso Charlie), Amerikatsi trova in coda anche la forza di ergersi a favola morale, per farsi testamento dell’ingiustizia, ma anche anelito e riconciliazione (im)possibile per cotanta atrocità.

Non un film sul genocidio armeno (tra i tanti pregevoli ricordiamo La masseria delle allodole dei fratelli Taviani), ma sull’assurdità di ogni genocidio per un cinema più sentimentale che intellettuale, che parteggia per i vinti (dalla follia dell’ideologia, dalle vergogne della Storia), per i diseredati, per i sommersi (e i salvati) regalando loro una finestra per reiventarsi la vita che non c’è.

Anche questa, in fondo, è speranza.