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Denzel Washington è
il pusher Frank Lucas
Denzel Washington e Russell Crowe. Uno spacciatore, l'altro sbirro. A metterli l'uno contro l'altro, il regista Ridley Scott, alla terza collaborazione con Crowe (Il gladiatore, Un'ottima annata). Al centro del gangsta-bio, la moralità: una moralità altra, pistola in mano, e eroina blue magic in vena. La prima la impugnano sia il Frank Lucas di Washington che il Richie Roberts di Crowe, dalla seconda si astengono entrambi, ma su opposti versanti combattono per controllarla. Crowe consegna in centrale un milione di dollari di banconote non segnate, divenendo inviso ai colleghi corrotti e lo zimbello di tutti gli altri, ma non è un buon marito, né un buon padre.
Speculare è Washington, tutto famiglia, casa e "lavoro": apprendista dal boss di Harlem Bumpy Johnson, alla sua morte ne prende il posto, senza l'appariscenza dei pusher negri alla Leroy "Nicky" Barnes (Cuba Gooding Jr.) ma con l'understatement di chi punta in alto: al cielo, dove volano i cargo della US Air Force di ritorno dal Vietnam con il loro carico di morte. Morte doppia: soldati uccisi dai vietcong ed eroina purissima, pronta da tagliare e mettere in strada. Roba da negri? Può un negro arrivare a tanto? Dalla polizia alla mafia italiana, non ci crede nessuno. A torto. Perché Frank Lucas è un negro che fa' la cosa giusta: il bianco. Brutale quando serve, spietato quanto basta, razionale (quasi) sempre: non bluffa, non le spara grosse (a parole), tiene in pugno fratelli e cugini, rispetta la madre, non cerca le donne d'altri, sceglie per moglie una bellezza non convenzionale, si accorda con la mafia, fa una montagna di soldi, ma per sé sceglie l'ombra. Fino a quando uno sventurato pellicciotto di cincillà illuminerà la sua fine... Dopo 158 minuti (troppi!!!), un cartello consuma l'epilogo della storia - vera - di Lucas, back in the Seventies, l'America prostrata dalla guerra in Vietnam, anche sul fronte interno: i reduci ridotti a zombie dall'eroina e la polizia con due occhi chiusi sul narcotraffico di Cosa Nostra.
Il Padrino, Serpico, Scarface, Quei bravi ragazzi, tutto quello che volete, ma American Gangster ci dice - vorrebbe dirci... - un'altra cosa: la morale non è mai bianco o nero. Fin qui tutto bene, ma il problema non è la caduta del vero Frank Lucas nell'articolo di Mark Jacobson (New York Magazine, 2001), ma l'atterraggio del saggio sul film di Scott. Che incollando su pellicola la carta di Jacobson perde molto, moltissimo: soprattutto, Harlem, in costante e colpevole fuoricampo, e l'eccezionalità di Lucas, gangster negro sui generis, a scapito dell'usurato poliziotto (classica dicotomia tra rigore professionale e vita privata alla deriva, e non solo) di Crowe, divo della stessa grandezza di Washington, e indi con pari numero di inquadrature nel film. Qualcuno potrà abboccare nei virtuosismi registici di Scott, che porta la camera là dove pochi altri riuscirebbero, ma è anche vero che nessuno gliel'aveva chiesto. Peccato, due ottimi attori quasi sprecati e una vita - quella del vero Frank Lucas - sofisticata.
PS: Speriamo vada meglio con altri tre progetti messi in cantiere da una Hollywood sempre più sotto effetto stupefacente (sarà lo sciopero degli sceneggiatori?): doppio "spin-off" per l'heroin dealer Leroy "Nicky" Barnes: una serie tv prodotta da Forest Whitaker e il documentario diretto da Marc Levin, appena uscito nelle sale americane; il biopic sul narcotrafficante Jon Roberts, già oggetto del doc. Cocaine Cowboys, con il volto di Mark Wahlberg.