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Jeffrey Wright in American Fiction
Thelonious Ellison detto Monk è uno scrittore afroamericano stimato quanto di nicchia che insegna letteratura inglese all’università. È un uomo in crisi: diffida della sensibilità culturale dei suoi studenti (“Da quando sono tutti così delicati?” si chiede nella prima scena del film), non riesce a pubblicare il suo romanzo perché gli editori non lo considerano “abbastanza nero”, ha una posizione accademica traballante (viene messo in congedo affinché possa frequentare un seminario letterario con la prestigiosa scrittrice nera di We’s Lives in Da Ghetto, un romanzo che asseconda gli stereotipi sulla comunità).
Monk approfitta della pausa per tornare nella natia Boston, dove la mamma sta manifestando i primi sintomi dell’Alzheimer, il fratello ha appena lasciato la famiglia e si dà a droghe e sesso occasionale e la sorella medico non può pensare a tutte le disfunzioni della famiglia. In un impeto di rabbia, nell’arco di una notte Monk scrive un romanzo, My Pafology (poi ribattezzato Fuck) che combina tutti gli stereotipi neri. Lo firma con uno pseudonimo e, quando incredibilmente riesce a vendere il manoscritto, inventa un’identità alternativa alla Elena Ferrante (un nero evaso che non può farsi vedere), riceve un cospicuo anticipo finanziario e viene contattato da un produttore indie che vuole acquistare i diritti del romanzo.
Vincitore del Premio del Pubblico al Toronto Film Festival (storicamente un forte indicatore per anticipare le scelte dell’Academy) e candidato a cinque Oscar (film, attore, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, colonna sonora), American Fiction è l’opera prima di Cord Jefferson, nato nel 1982 in Arizona che, dopo i primi passi da giornalista (ha scritto per USA Today, Huffington Post e The New York Times Magazine), si è dedicato alla scrittura televisiva (il talk show The Nightly Show con Larry Wilmore, le serie Master of None e The Good Place) arrivando a vincere un Emmy per la sceneggiatura della serie Watchmen.
All’origine c’è il romanzo Erasure (“cancellazione”) di Percival Everett (2001), che unisce la satira accademica sulla proliferazione di testi del filone “vita nel ghetto” (come Push di Sapphire, da cui il film Precious), con un ampio uso di elementi metanarrativi, con il ritratto commovente di un figlio che fa i conti con il fantasma della morte. Jefferson si è imbattuto in Erasure nel Natale del 2020, mentre la sua carriera era in un momento di stallo, trovando molte similitudini con la sua vita: “È stato tanto emozionante quanto inquietante: come se qualcuno avesse deciso di scrivere un romanzo che affrontasse tutto ciò che stavo attraversando e i temi sui quali rifletto da vent’anni… Cosa significa essere uno scrittore nero, le restrizioni che vengono poste intorno alle cose di cui puoi e non puoi scrivere… Tutto ha avuto una risonanza profonda dentro di me”.
Jefferson si scaglia contro il “black trauma porno”, cioè l’ossessione dell’industria audiovisiva di trasformare il dolore dei neri in oggetto di consumo, producendo un’esperienza di trauma vicario per il pubblico e riattualizzando il coinvolgimento per chi ha vissuto tali eventi. “I dirigenti – spiega Jefferson – mi davano degli appunti su come rendere i personaggi ‘più neri’, mi chiedevano di scrivere film su uno schiavo o sugli spacciatori. Sono rimasto semplicemente sorpreso da come, anche nel mondo della narrativa, ci fosse ancora questa rigida limitazione a come la gente pensava che fosse la vita dei neri. E c’erano queste aspettative secondo cui, come artista nero, questo è ciò per cui sei bravo. E nient’altro”. Ventidue anni dopo la sua pubblicazione, Erasure è più attuale che mai.
In origine si sarebbe dovuto chiamare proprio Fuck, che nell’epoca del SEO non è esattamente un titolo facile da gestire. Meno male, perché American Fiction è ben più perfido e largo: è un grande affresco della società statunitense, un’intelligente polemica sulle ipocrisie del suo apparato culturale e, allo stesso tempo, un’acuta rappresentazione di una famiglia della classe medio-alta.
Discorso pubblico e lessico privato si leggono allo specchio, le storture dell’uno (il comitato di un premio letterario che arruola Monk nella giuria per “porre rimedio alla mancanza di diversity arrivata a un punto cieco”: il verdetto è di notevole acidità, ma d’altronde “i bianchi pensano di voler sentire la verità ma in realtà vogliono solo sentirsi assolti”) si riflettono nelle disfunzioni dell’altra (la persistente coltre ipocrita attorno ai tradimenti del rispettabile padre defunto, l’incomunicabilità tra la madre al crepuscolo e il figlio reietto che ha fatto coming out), e il personaggio di Monk diventa punto di caduta di un sistema pronto a collassare.
Quella di Jefferson è una strepitosa commedia, tanto acida e malinconica quanto empatica e rabbiosa, in cui temi che altrove avrebbero imprigionato la narrazione in un testo didascalico si liberano con fluidità e leggerezza senza rinunciare alla loro potenza politica. È vero, la struttura più audace di Everett si riconfigura in modo meno ardito (le uniche divagazioni sono nel momento della scrittura di My Paffology, con i personaggi del libro che prendono vita nella stanza di Monk, e il finale a scatole cinesi), ma è straordinario quanto sia profondamente umoristico lo sguardo dell’autore.
Si sente l’eco di Mike Nichols ed Elaine May, ma c’è soprattutto il ricordo nitido di Hollywood Shuffle, commedia satirica by Robert Townsend sugli stereotipi razziali nel cinema e in televisione, senza dimenticare Il camaleonte di Wendell B. Harris che riflette sul concetto di identità nera e Bamboozled di Spike Lee su come la società dello spettacolo deride gli afroamericani.
Ogni epoca ha bisogno del suo American Fiction, un film che fa sintesi di qualcosa che si sente nell’aria, e infatti arriva dopo che altri hanno gettato le basi senza raggiungere la rotondità di Jefferson, come la dark comedy Sorry to Bother You, su un operatore di telemarketing che fa “acting white” (un nero che tradisce la propria cultura per rispondere alle aspettative dei bianchi) e l’assurda miniserie Sono vergine, con un ragazzo alto quattro metri che decide di vedere per la prima volta il mondo e scopre la lotta di classe.
Il film di Jefferson, che conta su almeno un paio di sequenze da antologia (la riunione di giuria con il confronto tra Monk e la collega nera, il ballo tra la mamma e il figlio reietto), ha il respiro del grande film anche grazie alla splendida colonna sonora jazz di Laura Karpman (non dimentichiamo che il soprannome di Monk gli arriva dal nome Thelonious, ma nella soundtrack non ci sono brani del grande improvvisatore) che riesce a coprire l’ampia gamma emotiva della storia e i repentini cambi di rotta (Woody Allen non è una referenza campata in aria).
E per il cast da applausi: Jeffrey Wright (una garanzia, tutto in sottrazione, in corsa per l’Oscar), Tracee Ellis Ross (pochi minuti che restano nella memoria), Erika Alexander (la possibilità di una vita normale), Leslie Uggams (meravigliosa nel ruolo della mamma), Sterling K. Brown (il Randall di This Is Us, nominato all’Oscar), Myra Lucretia Taylor (la tenera domestica), John Ortiz (l’agente, altra minoranza), Issa Rae (l’anima di Insecure, qui scrittrice di punta), Adam Brody (il produttore svalvolato). Non sarà Oscar, ma che gran film.